Il Tirreno

A tavola con noi
In punta di forchetta

Wellington, una passione di filetto: le origini, la ricetta e le nuove tendenze dei grandi chef

di Gabriele Pasca
Gabriele Pasca, critico gastronomico, e un filetto alla Wellington
Gabriele Pasca, critico gastronomico, e un filetto alla Wellington

E non stupisce che sia diventato un simbolo di grandi cene di rappresentanza

3 MINUTI DI LETTURA





Un piatto avvolto nel mistero. Così potrebbe iniziare la storia del filetto alla Wellington, un nome che evoca fasti imperiali ma che porta con sé anche un alone di incertezza. Nessuna fonte attendibile ne certifica la nascita: un’invenzione inglese, una rivisitazione del francese filet de bœuf en croûte o, più semplicemente, un’invenzione americana per vestire il filetto di un’aura nobiliare.

Le origini

Qualunque sia l’origine, la ricetta originale è ben codificata: un taglio di filetto di manzo avvolto in un sottile strato di duxelles (una crema compatta di funghi tritati finemente, scalogno e talvolta tartufo) e ulteriormente protetto da uno strato di prosciutto crudo, il tutto racchiuso in una crosta di pasta sfoglia dorata al forno. Eppure già nel XVI secolo, alcune preparazioni di carne avvolta, simili nel principio, compaiono nei trattati di cucina rinascimentale, come quelli di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papi e principi, che parlava di arrosti "rivestiti" per conservare succosità e aromi. Più tardi, con La Varenne, la codificazione francese avrebbe perfezionato l’arte di unire proteine e crosta in un’unica architettura. Ma ciò che differenzia il filetto alla Wellington da ogni altra preparazione è la sua teatralità: la doratura perfetta, il taglio che svela il rosa vivo della carne, il profumo che si libera al primo tocco del coltello. Non stupisce che sia diventato simbolo di grandi cene di rappresentanza, tanto da figurare, secondo alcuni, nei banchetti per la vittoria di Waterloo.

Nuovi orizzonti

Oggi, però, il filetto alla Wellington non è più solo sinonimo di carne. Le interpretazioni moderne ne ampliano i confini: vegetali, pesci e croste di ogni tipo spostano il baricentro di un classico che non smette di essere un palcoscenico per tecnica e immaginazione. Ne è un esempio il Wellington Fish dello chef Denny Lodi Rizzini del ristorante Makorè di Ferrara, dove la tradizione inglese viene completamente rivisitata in chiave marina. Al posto del filetto di manzo, protagonista diventa la rana pescatrice, spennellata con pasta di senape di Dijon per esaltarne le note pungenti. Avvolta in una crespella, viene ulteriormente impreziosita dal prosciutto di tonno e da funghi trifolati: una composizione che si completa nel piatto con verdure locali e il profumo del tartufo nero. A Cervesina, in provincia di Pavia, lo chef Federico Sgorbini del ristorante Dama propone una versione che elimina del tutto la carne, ma non l'identità del piatto. Il suo filetto alla Wellington vegetale ruota attorno alla rapa rossa, trattata come fosse un roastbeef: cosparsa di sale grosso, cotta al cuore e servita in monoporzione, ha persino il colore di un filetto al sangue.

La preparazione resta fedele alla struttura classica, con pasta sfoglia, crespella e una duxelles di funghi arricchita da erbette locali. Ogni singolo ingrediente, dalle farine per la sfoglia al burro, è rigorosamente selezionato dal territorio dell’Oltrepò Pavese. Infine, la versione dello chef Cristian Benvenuto del ristorante La Filanda di Macherio (MB) è una rilettura che strizza l’occhio ad un concetto molto confortevole di eleganza: un carrè di agnello disossato e avvolto in doppio strato di pasta sfoglia e spinacino che, servito al tavolo e porzionato sotto l’occhio dell’ospite, viene accompagnato da una gravy di agnello e dal peperone crusco in tre consistenze: spuma, polvere e croccante.

Primo piano
Il caso a Massarosa

Raggirata online e perseguitata, s’indaga per istigazione al suicidio. La famiglia: «Finalmente si comincia a fare luce»

di Gianni Parrini e Barbara Antoni
Sportello legale