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Ceccolini, dai banchi di scuola dell'Iti di Livorno in Alaska tra gli Inuit per creare il ghiaccio «Qui il nostro primo prototipo a - 40 gradi»

di Francesca Suggi
Ceccolini, dai banchi di scuola dell'Iti di Livorno in Alaska tra gli Inuit per creare il ghiaccio «Qui il nostro primo prototipo a - 40 gradi»

L'informatico e ambientalista livornese che vive a Londra racconta la sua esperienza tra i ghiacci con la popolazione indigena

05 ottobre 2024
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LIVORNO. In Alaska tra gli Inuit. A testare la tecnologia che (forse) salverà il mondo. Andrea Ceccolini racconta al Tirreno questa esperienza “ai confini della realtà”.

«Il metodo per l'ispessimento del ghiaccio è stato studiato "su carta" e in laboratorio nello scorso decennio, ma nessuno era andato veramente a testarlo nell'Artico. Appena arrivato a Real Ice ho fatto di tutto perché nel giro di qualche mese si potesse organizzare una spedizione nell'Artico. Non con poche difficoltà, ci siamo organizzati per costruire il nostro primo prototipo di tecnologia usabile nell'Artico, abbiamo mandato in avanscoperta due dei nostri per parlare con i rappresentanti del villaggio di Nome, in Alaska, in gran parte di etnia Inuit. Infine siamo andati a Febbraio 2023 per due settimane, potendo contare sul supporto locale». Dai banchi dell’Iti a un progetto che potrebbe cambiare il mondo. In luoghi estremi. Dove tutto è ghiaccio, la temperatura scende anche -50 °C e il vento soffia a 80 km orari. «Il viaggio di quasi due giorni ci ha visti passare da Vancouver ad Anchorage ed infine a Nome, sopra paesaggi deserti, bianchi e infiniti, arrivando sul mare di Bering, a due passi dalla Russia - racconta - È stata un'esperienza bellissima ma allo stesso tempo durissima. Un grande successo dal punto di vista tecnico, scientifico ed anche umano. Per fare le nostre prove bisognava trovare un punto in mare aperto, sopra alla superficie del ghiaccio, lontano da altre attività. Il primo giorno la nostra guida indigena ci ha aiutato ad identificare un punto abbastanza sicuro, poco lontano dal porto, ma non ci ha voluto accompagnare oltre la costa».

L’accoglienza? Una tempesta di neve. «Ma io e il nostro capo ingegnere abbiamo comunque deciso di uscire. Abbiamo trasportato con una slitta e diversi viaggi, la pompa elettrica, le casse con la centralina elettrica, una trivella per il ghiaccio e tutti gli altri utensili necessari. Fatto un buco nel ghiaccio profondo un metro, calata la pompa dentro al mare, e collegato il tutto, abbiamo fatto il primo esperimento di ispessimento del ghiaccio, pompando circa mille litri d'acqua al minuto. Dopo oltre un'ora in condizioni estreme, avevamo coperto un'area grande come un campo da basket, creando le condizioni per ispessire il ghiaccio di circa 20 cm».

Tanti i contatti con la popolazione locale, incluso fare una presentazione alla scuola media del paese, accolti da mille domande dei ragazzi Inuit. Poi la spedizione nello stato di Nunavut: «Quest'anno siamo poi andati ancora più a nord, in Canada, nel villaggio di Cambridge Bay, nell'Isola di Victoria, parte dello stato del Nunavut. Il Nunavut ha 7 volte la superficie dell'Italia ma solo 40mila abitanti. Il nostro villaggio ne contava 1750, quasi tutti di etnia Inuit». L'isola Victoria, un immenso deserto di ghiaccio. «Stavolta l'obiettivo era più ambizioso - è un libro Ceccolini - e volevamo provare una pompa a idrogeno, che ci avrebbe permesso maggiore autonomia pur mantenendo l'assenza di emissioni, richiedendo però una centralina elettrica molto più complessa. Anche in questo caso i test sono andati a buon fine ed abbiamo operato su un'area di oltre 4000 metri quadri, ispessendo il ghiaccio di oltre 25 cm». E ancora: «Ci ha ospitati la stazione polare del Canada, che ci ha permesso di usare laboratori e spazi per completare al meglio le nostre preparazioni e misurazioni. Abbiamo fatto presentazioni e dimostrazioni a tanti gruppi indigeni. Eravamo in cinque stavolta: ogni giorno andavamo fuori con due guide Inuit esperte di quelle distese immense di ghiaccio». Sono racconti di un’impresa che potrebbe salvare il mondo. «Con temperature fino a -40 e vento che le faceva percepire vicine a -50, abbiamo ogni giorno stretto i denti e provato e riprovato le nostre apparecchiature, bucando il ghiaccio, pompando acqua, misurando i risultati. Una tenda e un thermos caldo ci permettevano di sopravvivere». Ceccolini e gli Inuit. «Dipendono dal ghiaccio marino per gli spostamenti via slitta, per cacciare e per pescare. Col ghiaccio che si scioglie sempre prima e si forma dopo, durante l'anno, tante delle tradizioni e il loro sostentamento sono a rischio. La fauna marina e terrestre è altrettanto dipendente dal ghiaccio marino: qui siamo veramente isolati». Fa esempi. «Qui arriva una nave all'anno, d'estate, per trasportare materiale pesante o pericoloso. Ci si arriva solo in aereo. Gli Inuit si muovono con le motoslitte, ma il villaggio più vicino è a 500 km e la città più vicina a 2mila km. Quando escono per una battuta di caccia, e talvolta sono via per settimane, in mezzo all'inverno, lo fanno per sostenere le famiglie. I prezzi del cibo che arriva in aereo sono proibitivi. Il caribù e il bisonte muschiato forniscono mesi di cibo per una famiglia. Gli anziani del villaggio ci hanno raccontato tante storie di come era loro vita tanti anni fa e come funziona ancora. Non sceglierebbero mai un altro posto per vivere».l

F.S.

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