Eccidio di Stazzema, ottant'anni dopo l'urlo del superstite: «I nazisti non li perdonerò mai»
Mario Marsili fu l'unico a sopravvivere nella stalla in cui fu portato con la madre e i parenti in quel 12 agosto 1944. Aveva sei anni: «Mi rivedo nei bimbi di Gaza e d’Ucraina»
«A giugno del 2005, il procuratore Marco De Paolis fece condannare all’ergastolo dieci tedeschi rei confessi per la strage di Sant’Anna di Stazzema. Io non li perdonerò mai. Lo scriva, mi raccomando, che non li perdono». Parlare con Mario Marsili, uno dei superstiti di una delle stragi più cruente della Seconda Guerra Mondiale, espressione della più bieca furia nazifascista, è qualcosa che niente nella vita potrà cancellare. È la voce del dolore più sconfinato raccontato dalle parole di un adulto con gli occhi del bambino che era quando dovette passare attraverso l’inferno per avere salva la propria esistenza.
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«Il ricordo di ciò a cui ho assistito, lo sterminio di una serie di persone e l’uccisione di mia madre Genny, lo porto tutti i giorni nei miei pensieri», dice Mario. Aveva sei anni nel 1944, oggi ne ha 86; il suo racconto è vivido, preciso, particolareggiato. Ha accettato il dolore, lo ha elaborato, ma l’intensità della sofferenza era ed è immensa; da ottant’anni porta questa croce.
La famiglia rifugiata a Stazzema
«Ad agosto del ’44 la mia famiglia da Pietrasanta si era rifugiata in località Vaccareccia, a Stazzema. Mio nonno Umberto Bibolotti e mia nonna Bianca Navari avevano due figlie femmine, tra cui mia madre, e due maschi; ci avevano portati tutti sulla montagna perché temevano i rastrellamenti – ricostruisce –. Mio babbo non c’era perché era stato mandato alla guerra in Russia: di lui da mesi non si sapeva niente, neanche se fosse vivo. Le giornate scorrevano tranquille: a Sant’Anna della guerra non si percepiva quasi niente, solo quale aereo che sorvolava la zona. Lassù c’erano i partigiani: per questo il 12 agosto del ’44 vennero a Sant’Anna, per scovarli e ucciderli. Ma non li trovarono: erano andati via due giorni prima; nel paese erano rimasti per lo più donne, vecchi, bambini».
Sono le 6 del mattino del 12 agosto 1944 quando l’orrore bussa alla porta dei Bibolotti alla Vaccareccia. «Si sentirono colpi alla porta – ricorda Mario –: erano i tedeschi. Eravamo ancora a letto, non potevamo immaginare quello che di lì a poco sarebbe successo. Per primi i soldati tedeschi si presero i miei zii; ne fecero i loro aiutanti forzati: uno lo caricarono di munizioni, l’altro di radiotrasmittenti e se li portarono dietro in tutti i luoghi dell’eccidio. Poi presero me, la mamma, i nonni, la sorella di mia madre e ci portarono nella stalla sottostante: cacciarono le pecore e ci fecero entrare colpendoci coi calci dei fucili. Io ero in braccio a mia mamma, che era smarrita. Come noi, fecero entrare a forza altre quindici persone prelevate dalle case vicine. In quella stalla già regnava la tragedia».
Salvato dal coraggio della madre prima dell'orrrore
Con la forza della disperazione e presentendo il peggio, «mia mamma, che aveva 28 anni, pensò solo a me – prosegue Mario il racconto –. Dietro alla porta d’ingresso della stalla, in alto, c’erano due pietre sporgenti sulle quali i contadini poggiavano i propri arnesi. Mi sollevò e mi mise seduto lì. “Non ti muovere”, mi disse, “rimani qui”. Ci rimasi otto ore».
Furono le ore più terribili della vita di Mario Marsili. Piccolo, appollaiato sulle pietre sporgenti, dall’alto i suoi occhi di bambino videro l’inimmaginabile. «Cominciarono ad arrivare tedeschi con i fucili, le pistole, i lanciafiamme. Le persone cercavano di scappare dalla stalla, ma loro le rintuzzavano dentro. Vidi mia madre con una ferita alla testa, era molto vicina a dove mi trovavo io. Ebbe paura che i tedeschi mi notassero e così, con l’unica “arma” che aveva, attirò l’attenzione su di sé: si tolse uno zoccolo e lo lanciò contro i suoi carnefici. Le spararono immediatamente: la vidi accasciarsi e morire, senza poter fare niente».
Ustionato ma salvato dalla gente del posto
Di lì a poco, ricorda Mario, i tedeschi sterminarono tutte le persone rimaste nella stalla, «pensando di avere ucciso tutti. Poi diedero fuoco ai corpi. Nessuno mi notò, di loro sono l’unico superstite. Coi miei occhi ho visto i corpi bruciare, finché le fiamme raggiunsero anche me: riportai ustioni di terzo grado al collo, al braccio e alla schiena. Il dolore era lancinante: a un certo punto non riuscii più neanche a urlare, a chiedere aiuto. Ma la sera qualcuno della gente del posto, venuta a vedere se ci fossero superstiti, sentì i miei gemiti. Ero ancora su quelle pietre. Mi presero, improvvisarono una barella con un lenzuolo e mi portarono a Valdicastello Carducci, dove era stato allestito un ospedale da campo. I medici dissero alla sorella di mia madre, che si era salvata, che sarei morto di lì a poco, perché le fiamme mi avevano scarnificato la schiena, fino a scoprire i polmoni. Mia zia mi portò in un convento di suore a Pietrasanta: dalle ustioni guarii grazie ai loro unguenti. Poi ho dovuto trascorrere un anno in ospedale per ristabilirmi».
Quando Mario Marsili ricorda quei momenti – e lo ha fatto innumerevoli volte, soprattutto davanti a giovani studenti – li rivive. «Mi ci immedesimo, provo dolore», confessa.
Una vita cambiata oer sempre
«La mia adolescenza è stata triste – continua il racconto –; da quel terribile giorno la mia vita è cambiata per sempre, sia psicologicamente che fisicamente. Ho cercato di sopravvivere grazie alle amicizie. L’unica gioia fu il ritorno di mio padre vivo alla fine della guerra. Sono vissuto con lui fino a che ho creato una famiglia mia; ai miei figli ho trasmesso la mia memoria».
Il riconoscimento a mamma "Gennì"
Nel cuore di Mario, il sentimento per mamma Genny – che lui pronuncia “Gennì” – è rimasto inalterato. «Nel 2000 portai la mia testimonianza a conoscenza del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il 25 aprile 2003 mi invitò al Quirinale per consegnarmi la medaglia d’oro al valore civile per l’eroismo di mia mamma. Ho ricevuto riconoscimenti anche a Pietrasanta e Viareggio, dove a lei sono state intitolate due scuole. Anche ad Alliste, in provincia di Lecce: lì le hanno intitolato una scuola e una piazza».
Mario, con la licenza media e l’avviamento commerciale, ha lavorato nella sua vita come dipendente dell’anagrafe comunale di Pietrasanta. Non ha mai smesso di portare ovunque la sua testimonianza. «Vado nelle scuole – conclude –. Di politica non mi intendo; anzi, sono un antipolitico per eccellenza. Racconto la mia esperienza di vita perché tutti sappiano gli orrori della guerra. Invece le guerre continuano, per l’egoismo umano. Nei bimbi che soffrono in Ucraina e a Gaza rivedo me bambino, nei genitori che tentano di salvarli rivedo mia madre. Auguro ai giovani di trarre con volontà il proprio percorso di vita, per la libertà, la democrazia e quella bellissima parola universale che è “pace”».