Il Tirreno

Livorno

Inghiottiti dall’inferno

Un serbatoio ogni 75 metri: «Otto impianti ad alto rischio». Quali sono gli stabilimenti più pericolosi

di Martina Trivigno
I serbatoi della raffineria Eni di Livorno (foto d’archivio)
I serbatoi della raffineria Eni di Livorno (foto d’archivio)

Livorno, la mappa di ministero e Ispra: nel mirino finisce la vicinanza dei depositi

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LIVORNO. Soltanto tra Livorno e Collesalvetti ci sono otto stabilimenti di soglia superiore. Tradotto: industrie a rischio di incidente rilevante. E, tra questi, c’è anche la raffineria Eni di Stagno. È quanto emerge dall’inventario coordinato dal ministero della Transizione ecologica e predisposto dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra): un dossier che contiene l’elenco degli stabilimenti notificati ai sensi del decreto legislativo 26 giugno 2015, numero 105 (di volta in volta aggiornati) e che contiene anche, per ogni impianto, le informazioni al pubblico sulla natura del rischio e sulle misure da adottare in caso di emergenza. E il tema della densità di serbatoi sul territorio livornese – uno ogni 75 metri – è stato riportato alla luce dall’esplosione di ieri mattina (9 dicembre) nel deposito Eni di Calenzano, di fatto collegato alla raffineria Eni di Livorno attraverso due oleodotti lunghi circa 90 chilometri ciascuno.

Dove si trovano

Non c’è altra zona del centro Italia, infatti, in cui si contino così tante aziende e così vicine l’una all’altra. Per intenderci: l’entrata del Costiero Gas è a 470 metri in linea d’aria da quella dei Costieri D’Alesio, che a sua volta dista 190 metri dai Depositi Costieri del Tirreno. Ma il complesso industriale più importante è di gran lunga la raffineria Eni: si estende quasi su un milione e mezzo di metri quadrati di territorio per uno standard annuo di 5 milioni di tonnellate di prodotti finiti. È vero che la raffineria si affaccia sull’Aurelia a Stagno ma il muro perimetrale passa a non più di 320 metri da quello del Costiero Gas. A queste aziende si aggiungono: Cheddite Italy a Salviano, Olt Offshore Lng Toscana e, infine, Livorno Lng Terminal. Tra gli stabilimenti di soglia inferiore compare, invece, Schlumberger italiana a Quercianella. Insomma, le industrie a rischio nel comprensorio Livorno-Colle sono a contatto di gomito: 212 serbatoi racchiusi in una striscia di 168 ettari a nord della città. Tradotto: in media ce n’è uno per ogni quadrato di terreno, meno di 86 metri di lato. Dunque, in media, ciascun serbatoio ne ha un altro a meno di 75 metri, e in più della metà dei casi la distanza effettiva non raggiunge i 20 metri (talvolta a malapena i dieci).

Certo, non tutti contengono sostanze difficili da maneggiare ma, secondo la banca dati del Sira Toscana (Sistema informativo regionale ambientale), dovrebbe esserci anche etanolo e toluene, furfurolo e propano, idrogeno solforato e metanolo, toluolo e xilene: l’uno nocivo per ingestione, l’altro per inalazione o «altamente infiammabile» o anche sospetto cancerogeno.

La direttiva Seveso

In presenza di così tanti serbatoi e soprattutto così ravvicinati, il comandamento numero uno è evitare l’“effetto domino”, cioè il rischio di vedere l’emergenza in una zona finire per coinvolgere il serbatoio accanto e da lì un altro ancora. È talmente unico – quantomeno in tutto il centro Italia – quest’addensarsi di industrie a rischio che Livorno è stato l’apripista a livello nazionale (e anche oltre) per affrontare proprio il devastante effetto combinato che può avere il “contagio” di incendi o esplosioni da una cisterna all’altra del polo petrolchimico nato poco prima della seconda guerra mondiale a nord dell’ultra-periferia livornese. L’Italia recepisce la “direttiva Seveso” nella primavera di 30 anni fa: poco più tardi, con i piani dell’ingegnere livornese Giovanni Motta prima distaccato in Regione e poi come dirigente dell’Authority, si arriva a una visione d’insieme che evita di considerare ogni fabbrica come se fosse un caso a sé.

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