Pacini Battaglia, un uomo da 50 miliardi: da Tangentopoli ai fondi neri dell'Eni. Chi era il banchiere “a un passo da Dio"
Morto a 89 anni era originario di Bientina, in provincia di Pisa, paese con cui i rapporti non si sono mai interrotti. Quando venne interrogato dall’allora pm di “Mani Pulite” Antonio Di Pietro il 10 marzo 1993 fece mettere a verbale inizi e progressione di una carriera che lo avrebbe portato a muovere soldi e relazioni tra Londra, Ginevra, Milano e Roma
Quello che doveva dire è scritto nei verbali di interrogatori e sentenze. Ma quello che non ha detto resta la parte più succulenta. Un racconto mai svelato che sparisce con chi ne era l’unico depositario.
Con la morte di Pierfrancesco Pacini Battaglia se ne va uno degli ultimi protagonisti della stagione di Tangentopoli. Un’epopea giudiziaria iniziata il 17 febbraio del 1992 con l’arresto del socialista Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio di Milano preso con una mazzetta appena intascata che cercava di buttare nel wc. Uno tsunami che ha demolito la Prima Repubblica, ignorando che chi è venuto dopo non sarebbe stato capace di utilizzare la cassetta degli attrezzi per costruirne una Seconda resistente al virus della corruzione.
Pacini Battaglia aveva 89 anni e da tempo si era trasferito a Roma dove sabato 7 ottobre è deceduto. Originario di Bientina (Pisa), con cui i rapporti non si sono mai interrotti, quando venne interrogato dall’allora pm di “Mani Pulite” Antonio Di Pietro il 10 marzo 1993 fece mettere a verbale inizi e progressione di una carriera che lo avrebbe portato a muovere soldi e relazioni tra Londra, Ginevra, Milano e Roma.
L’uomo che i magistrati hanno consegnato agli annali con l’immagine del potente e la frase diventata iconica del banchiere “un gradino sotto Dio”, ci tenne a far sapere che da giovane aveva lavorato come operaio in una fabbrica di laterizi. Un vezzo di chi mostra l’orgoglio di essersi fatto da solo partendo con umiltà. Quasi alla pari con gli altri. Anche se non era proprio nato male, Pierfrancesco Pacini Battaglia, detto “Chicchi”. «Ho studiato acquisendo la maturità scientifica, poi ho fatto l’operaio in una fabbrica di refrattari e poi, infine, intorno agli anni 1959-1960 ho cominciato ad effettuare alcune speculazioni immobiliari – è il verbale passato alla storia con la confessione della creazione dei fondi per pagare tangenti . Nella prima metà degli anni ’60 a dire il vero ho cercato di fare la bella vita con frequenti puntate a Montecarlo. Nel 1965 ho acquistato insieme a mio fratello una piccola fabbrica di refrattari». Poi il riferimento al papà: «Nel 1968 muore mio padre che era un avvocato, agricoltore ed anche un importante gerarca fascista locale».
Chicchi, cervello rapido e connessioni con il mondo che per il tempo erano rarità, guarda all’estero. Prosegue il racconto al pm: «Negli anni 1969-1970 inizio un’attività di intermediazione con l’estero con alcuni miei colleghi: si trattava di mettere in relazioni imprese italiane che volevano operare all’estero con esponente di quei Paesi. Accentuo la mia passione per i cavalli da corsa e realizzo una scuderia. Insomma, comincio a pormi evidenza in zona tanto che nel 1980 la Guardia di finanza inizia una verifica nei miei confronti e delle mie attività imprenditoriali che dura circa sei mesi. Questa esperienza mi deprime e allora decido di vendere tutto e di trasferirmi all’estero. Me ne vado a 50 km da Losanna dove compro una fabbrica di etichette per bottiglie. Nel 1981 apro una finanziaria a Ginevra denominata Karfinco e nel 1985 ottengo la licenza di banca».
Proprio quella banca fu il crocevia del giro di soldi in nero per i fondi occulti utilizzati per pagare manager e politici. Ammette i pagamenti e il sistema pensato per finanziare i partiti con le creste sui contratti esteri di gas e petrolio. È l’unico processo in cui è stato condannato a 6 anni quello dei fondi neri dell’Eni. Almeno 50 miliardi di lire: valigie di contanti prelevati in Svizzera, trasportate oltre confine da una società di “spalloni” e consegnate ai tesorieri del Psi e in parte minore della Dc. Nelle successive deposizioni il banchiere pisano ammetterà di aver gestito fondi neri della compagnia di Stato negli anni Ottanta per oltre 500 miliardi.
Svela nel lungo interrogatorio le mediazioni multi-miliardarie per il gas algerino, il petrolio libico e altri affari di rilevanza strategica prima mai sfiorati dalle indagini, fa nomi di grand commis di Stato, Gabriele Cagliari di Eni (suicida in carcere, ndr), imprenditori come Raul Gardini(altro suicida, ndr), di mediatori vicini ad Andreotti, descrive con minuzia di dettagli come i tesorieri dei partiti, Vincenzo Balzamo (Psi) e Severino Citaristi (Dc), facciano ritirare le buste ogni volta sul portone del suo studio a Roma. Un verbale di 19 pagine di nomi, numeri, società e la disponibilità a fornire ogni tipo di documentazione sugli affari di Eni, Saipem, Agip e Snam Progetti. Chi ha pagato e quanto e per conti di chi per finanziare la politica, ma anche costruirsi tesoretti personali. Lui, il figlio dell’agricoltore di Bientina diventato abile nelle ingegnerie finanziarie opache o esplicitamente illegali, entrato nella caserma della Guardia di finanza di Milano di mattina esce dopo 10 ore e se ne torna a Ginevra.
Calvo, corpulento, un lessico che soldi e frequentazioni altolocate avevano lasciato intatto nella sua veracità toscana, se Pacini Battaglia si è preso la scena ai tempi di Tangentopoli non è solo per le sue attività di collettore di mazzette. Il piglio di chi non ha paura di affrontare uomini e sfide non lo ha mai abbandonato. Il carcere lo ha conosciuto sia nella fase delle indagini (almeno un paio di volte) che in quella della sentenza definitiva del processo Eni. Quando lo portarono al Don Bosco di Pisa per l’esecuzione della pena, la tempra di Chicchi si palesò anche con gli agenti della penitenziaria: «In carcere datemi un materasso ortopedico, soffro di mal di schiena». O come quando circondato dalle microspie consegnava agli investigatori sfoghi e battute da toscanaccio, ma anche fragorose risate durante la lettura dei giornali con le cronache di Tangentopoli: «Gli è tutto vero»l