Il Tirreno

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Dillo al direttore

Crisi del lusso in Cina? Una scelta politica

di Alessandro Volpi *
Crisi del lusso in Cina? Una scelta politica

Il Paese asiatico è strutturato sulla domanda interna riducendo le esportazioni

27 novembre 2024
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Narrazioni sbagliate, volutamente. Il settore del lusso sta conoscendo una crisi per effetto della riduzione della domanda cinese che sarebbe un riflesso della crisi più generale che attraversa quel Paese. Ma le cose non stanno proprio così. Partiamo da una prima considerazione. Il settore dei beni di lusso è dominato da tre società: LVMH, Hermes e Dior che hanno una capitalizzazione complessiva di oltre 800 miliardi di euro. Si tratta di società quotate che sono nelle mani pressoché esclusive - con partecipazioni azionarie ultramaggioritarie, per non dire totali - di due sole famiglie, gli Arnault e gli Hermes. Siamo di fronte dunque ad una concentrazione di ricchezza finanziaria formidabile, che non passa attraverso i fondi, ma conserva una struttura familiare per certi versi quasi ottocentesca. Proprio questa struttura proprietaria, priva dell'apporto della liquidità delle Big Three, rende il settore del lusso dipendente dalla domanda reale, molto più di altri settori. Per fare un esempio Tesla può fare un fatturato trimestrale di meno di 25 miliardi di dollari e avere una capitalizzazione di oltre 1000 miliardi di dollari. Per LVHM, come per pressoché ogni altra azienda del lusso, questo non vale, non avendo la liquidità dei fondi deve vendere e dovendo pagare sul credito ai tassi ancora alti della Bce. Dunque una contrazione delle vendite determina subito una perdita di valore di titoli del lusso.

Ma come incide su ciò la Cina? La risposta data dalla stampa mainstream è decisamente fuorviante. La forte riduzione dei consumi di lusso da parte dei cinesi non dipende da una crisi nel paese ma da tre fattori specifici. Il primo è costituito dalla fuga dei miliardari cinesi che non hanno accettato la strategia del Plenum del partito comunista cinese di procedere ad una rinazionalizzazione di settori strategici dove quei miliardari facevano montagne di soldi. In pratica lo Stato cinese si è ricomprato società che permettevano a pochi “mandarini” di avere formidabili profitti e dunque il numero dei milionari in Cina si è drasticamente ridotto. Il secondo fattore è riconducibile alla politica di programmazione dei consumi ad opera dello stesso Plenum che li ha distolti dai beni di lusso e li ha indirizzati verso altri settori più funzionali alla crescita cinese.

L’economia cinese tende infatti a strutturarsi sempre più in direzione dell’aumento della domanda interna riducendo la dipendenza, nel recente passato preponderante, dalle esportazioni: oggi il Pil dell’ex impero celeste dipende assai meno dalle esportazioni di quanto non dipendano da esse le varie e bonomie europee. Il terzo elemento è costituito dalla nascita, in Cina, di marchi del lusso “nazionali”, creati cioè dal finanziamento statale e da alcuni gruppi privati, verso cui vengono dirottati gli acquisti prima indirizzati verso le produzioni del lusso estere. In sintesi, la crisi del lusso in Cina discende da una chiara scelta di politica economica, e sociale ed è dunque assai difficile da superare per i marchi internazionali, compresi quelli che hanno sedi produttive in Toscana. Una simile crisi potrà essere resa più accentuata dall’eventuale introduzione di dazi protezionistici in caso di non auspicabili “guerre doganali”.

*Università di Pisa
 

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