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L’analisi

Trump, la rinuncia alla difesa di Taiwan e la “dollarizzazione”


	Donald Trump
Donald Trump

Una contropartita per la Cina

23 luglio 2024
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Ecco le riflessioni dei lettori pubblicate sull’edizione cartacea di martedì 23 luglio, nella pagina dedicata al filo diretto con il direttore de Il Tirreno, Cristiano Marcacci. “Dillo al direttore” è l’iniziativa che permette alle persone di dialogare direttamente con Cristiano Marcacci, attraverso il canale WhatsApp (366 6612379) e l’indirizzo mail dilloaldirettore@iltirreno.it.

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di Alessandro Volpi *

Il discorso di Trump e le dichiarazioni del suo vice Vance in merito a Taiwan hanno una portata enorme. In pratica, Trump, il più feroce avversario della Cina nella sua precedente presidenza, sostiene che gli Stati Uniti potrebbero rinunciare alla difesa di Taiwan e dunque aprirebbero ad una “conquista” cinese. Si tratta di una posizione dal peso gigantesco. Cosa sta dietro ad una simile dichiarazione? A me vengono in mente almeno due elementi.

Il primo. Trump vuole riportare parti rilevanti della produzione americana negli Stati Uniti: in sostanza una reindustrializzazione. Per far questo servono finanziamenti dal resto del mondo che siano indirizzati all’acquisto di debito Usa e dunque occorre che la dollarizzazione non venga messa in alcun modo in discussione. La Cina è il perno della dollarizzazione perché circa un terzo degli scambi globali coinvolgono beni e servizi cinesi e quindi la decisione della Cina di sganciarsi dal dollaro sarebbe la fine della dollarizzazione e della conseguente possibilità per gli Stati Uniti di non dipendere solo da Wall Street. Consentire alla Cina di prendersi subito Taiwan vuol dire offrire all'ex impero celeste una contropartita formidabile al mantenimento della dollarizzazione.

Taiwan cinese vuol dire che i principali, e vitali, fornitori delle big tech americane saranno cinesi. Ma c'è un secondo elemento rilevante. Se le big tech dipenderanno dalla Cina perché la presidenza degli Stati Uniti ha deciso di favorire l’acquisizione cinese di Taiwan, è chiaro che il potere politico americano riassumerà un ruolo nel mondo della superfinanza e allora i gruppi vicini a Trump, da Musk ai tanti amici di Vance, saranno in grado di condizionare le Big Three, oggi, invece, onnipotenti. In altre parole, la gigantesca bolla finanziaria gestita da Black Rock, Vanguard e State Street rischierebbe di sgonfiarsi subito se la Cina decidesse di bloccare le forniture ai colossi di cui i tre fondi sono azionisti.

Quindi, Trump e la finanza a lui vicina avranno i mezzi per condizionare Larry Fink, Jamie Dimon e soci costringendoli a non escluderli mai dalle dinamiche della bolla stessa. In questo senso, attraverso il rapporto con la Cina e le elezioni presidenziali Usa, si compie una vera e propria guerra all'interno del capitalismo finanziario a stelle e strisce. Una cosa è certa, la Cina ha già vinto la sua battaglia e le sorti dell'Occidente dipendono ormai dalla disponibilità del Partito Comunista cinese di accettare la sopravvivenza del capitalismo.

Nel breve termine, il plenum cinese potrebbe accettare una simile mediazione per prendere il tempo giusto alla sostituzione definitiva dell'impero americano, che, del resto, ha già avviato liberandosi del debito degli Stati Uniti e facendo le prove generali per la costruzione di una soluzione monetaria diversa dal dollaro. Naturalmente, in tutto questo, l'Europa di Von der Leyen e Lagarde si preoccupa solo di costruire la Fortezza contro i migranti e un Green deal affidato ai fondi americani.

* Università di Pisa

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