Il Tirreno

Toscana

Commercio: l’analisi

La scomparsa delle botteghe in Toscana: chiuse 3.500 in undici anni. I numeri, i motivi e i settori che soffrono di più

di Mario Neri

	Una saracinesca abbassata
Una saracinesca abbassata

Otto toscani su dieci si sentono tristi di fronte al fenomeno: il 22% di chi vive in una zona con sempre meno negozi vuole cambiare casa

23 luglio 2024
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Un bandone abbassato fa tristezza. Non in senso figurato. Otto toscani su dieci la provano ogni volta che pensano al loro quartiere che si spopola di botteghe, al pizzicagnolo che ha organizzato un mesto brindisi per celebrare la chiusura dopo cinquant’anni di storia, al barbiere che ha detto addio e adesso tocca fare chilometri e infilarsi nell’atelier di un hair stylist di dubbia competenza in un centro commerciale anche per una semplice spuntatina, o ogni volta che rievocano la negoziante di fiducia nella piazza del rione che conosceva i gusti personali di ogni cliente per maglie e camicie o al ferramenta che aveva tutto, ma proprio tutto, e ora tocca ridursi al prezzo migliore su Amazon.

I perché

Un po’ la pandemia, un bel po’ l’e-commerce e «parecchio la politica», dice Aldo Cursano, presidente di Confcommercio Toscana, «hanno condannato alla scomparsa un modello sociale identitario per la nostra regione e tutta l’Italia». Anche lui ha avuto un sussulto ieri mattina, martedì 23, di fronte all’ultima indagine condotta dall’associazione di categoria insieme ad Svg sulla «desertificazione» del commercio nel Paese.

I numeri

Secondo lo studio il 22% degli italiani sarebbe pronto a cambiare casa e quartiere se si acuisse un fenomeno che ormai pare inarrestabile. Solo in Toscana, negli ultimi undici anni, sono spariti 3.500 negozi di prossimità. Per la precisione 3.482. Erano 16.445 nel 2012, l’ultima rilevazione, ferma al 2023, ne registra 12.963. A Firenze ne sono spariti più di mille, a Livorno 530, a Pisa 304. Le due città della costa, insieme ad Arezzo, sono quelle che registrano la flessione più alta. Nel decennio del grande salto della rivoluzione digitale nel commercio, le chiusure hanno superato il 24%, trasformando non solo parte del sistema economico dei capoluoghi, ma anche la loro conformazione sociale.

La costa

Il Covid poi, specialmente sulla costa, ha scavato un fossato ancora più profondo. L’indagine Swg rispecchia i dati della provincia di Livorno: per l’Osservatorio Economia Maremma e Tirreno, la piattaforma digitale in cui la Cciaa locale raccoglie i dati sullo sviluppo socio-economico del territorio, le nuove imprese del commercio (iscrizioni) sono diminuite dal 2020 al 2023 addirittura del 43%. «Accettare passivamente la chiusura dei negozi di vicinato, non fare niente per evitarla, vuol dire rassegnarsi a vivere in quartieri brutti e anonimi, estremamente insicuri, senza servizi, disintegrati socialmente e con un monte di problemi irrisolti. È inutile girarci intorno: senza negozi siamo tutti più poveri e più infelici», dice Federico Pieragnoli, direttore di Confcommercio delle province di Livorno e Pisa.

Le tipologie

L’emorragia ha svuotato le strade e le frazioni soprattutto di librerie, negozi di abbigliamento, piccole botteghe di elettronica, ferramenta, alimentari. Rispetto alle periferie, invece, la riduzione di attività commerciali è più accentuata nei centri storici: qui, sono sempre meno le attività tradizionali (come carburanti -40,7%, libri e giocattoli -35,8%, mobili e ferramenta -33,9%, abbigliamento -25,5%) e sempre più quelle che offrono servizi e tecnologia (farmacie +12,4% e telefonia +11,8%), oltre alle strutture ricettive (+42%) e bar e ristoranti (+2,3%). Solo per bar, ristoranti e alberghi si assiste a un’inversione di tendenza: da 8.388 attività del 2012 si è passati alle 9.084 del 2023, 696 in più. Effetto della turistificazione dei centri storici.

Il punto

I commercianti sono da almeno due anni le Cassandre dei rischi che grandi e piccole città d’arte corrono lasciando mano libera al fenomeno degli Airbnb. «Prima le merci si dirigevano dove c’era la gente, ora ci travolge un’ondata inversa – continua Cursano –: le persone vanno a vivere dove ci sono le merci e nei centri storici domina la rendita. Come può sopravvivere una bottega alimentari o un negozio di abbigliamento se deve pagare un affitto di 20mila euro, aumentato in maniera esorbitante a causa della speculazione delle rendita? Mettersi nelle mani del turismo significa perdere le città, le sue relazioni sociali, il modello uscio e bottega che era prima di tutto un viatico di aggregazione».

I servizi

«Sta succedendo dappertutto la stessa cosa – continua il presidente regionale di Confcommercio – E la desertificazione è determinata dalle scelte politiche degli ultimi venti anni. Liberalizzazioni, decentramento delle grandi funzioni verso le periferie e ora anche speculazione finanziaria dei giganti degli investimenti immobiliari hanno prodotto il mostro. Se sposti tribunali, università, servizi essenziali come ospedali e Asl fuori dal centro, chi vuoi che resti a vivere in città? Hanno costruito autostrade e caselli per uscire ai grandi centri commerciali, mentre i centri storici sono diventati fortezze con Ztl, Zcs, corsie preferenziali, multe. Mancano solo i cecchini a fermare chi entra. Come si crede che le persone vogliano vivere dove non trovano che turisti?».

Per le piccole imprese del commercio è il momento delle scelte choc. «Stiamo cadendo tutti come birilli. Governo, Comuni e Regione cambino rotta. Basta sostegno soltanto all’industria, all’agricoltura e alle multinazionali. Se si vuole che i commercianti tornino nei centri storici bisogna pagarli per farlo, altrimenti scordatevi di rivederceli».

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