Il Tirreno

L’intervista

Lo Sgargabonzi e la comicità come “atto misterioso”: «Attacco le cose di cui si dice bene»

di Libero Red Dolce
Lo Sgargabonzi e la comicità come “atto misterioso”: «Attacco le cose di cui si dice bene»

Alessandro Gori racconta il suo lavoro tra grottesco e satira. Arriva “Leprecauni Show” a Pisa al Cantiere San Bernardo martedì 26 novembre alle 21.30

26 novembre 2024
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Alessandro Gori, scrittore e comico conosciuto come “Lo Sgargabonzi”, arriva a Pisa con il suo “Leprecauni Show” martedì 26 novembre alle 21.30 al Cantiere San Bernardo. Fa parte di quegli autori che negli anni hanno costruito una base di fan costante e piuttosto larga, affezionata a un certo tipo di umorismo dissacrante e complicato. Granguignolesco. E allo stesso tempo non è difficile trovare - tra chi incappa in un suo racconto o in una sua battuta - chi storcerà il naso o rimarrà congelato. Quisquilie, per un autore che è finito a processo (assolto) per una battuta su Denise Pipitone, la bimba scomparsa anni fa da Marsala. Lo querelò la madre, per alcune battute che trovò diffamatorie. E si aprì un dibattito sulla libertà d’espressione che tre anni fa ebbe una certa eco.

Ecco, il punto è che la scrittura di Gori è difficile da capire se non si considera la realtà nei suoi aspetti più miseri e grotteschi, in una comicità che che non disdegna di flirtare con le maschera della morte e dell’orrore. Ne abbiamo parlato con lui, ma un consiglio accettatelo prima di lasciargli spazio: se mai vi foste interessati al mostro di Firenze, alle estati sulle coste consacrate al turismo o avete una certa nostalgia dell’infanzia, allora una possibilità a questo autore inusuale dovete darla. Sapete dove.

Nei tuoi spettacoli e nei tuoi testi emerge un’osservazione impietosa della società. Quanto è importante per te l'attualità nella costruzione del tuo umorismo? Ci sono messaggi che ti interessa lanciare o punti più sulla libertà dell'assurdo?

«Se mi chiedessero se mi preme più la situazione climatica e il mondo che lasceremo ai nostri nipoti, oppure la ripresa della ristampa a colori di Zagor, non farei nemmeno finire la domanda e sceglierei la seconda. Questo ti dice quanto sono portato per lanciare messaggi diversi da un invito all’edonismo reaganiano».

Di solito prendi le distanze dalla definizione di scrittore satirico ma il tuo ultimo libro “Gruppo di leprecauni in un interno” ha molti tratti del libro di satira. Come nasce e cosa aspettarsi dallo show?

«Due anni fa vinsi il Premio della Satira per un libro e uno spettacolo che io non ho mai pensato come satirici. Con il nuovo libro e il nuovo spettacolo, cerco di meritarmi retroattivamente quel premio. Ma è una satira fatta a modo mio, non m’interessano i target scontati, ma passo in rassegna quelli che per me sono i demoni minori del nostro contemporaneo e li prendo a schicchere come briciole da un tavolaccio. Quasi sempre sono cose di cui si dice bene e di cui penso malissimo. Ma faccio anche il contrario, nel libro c'è anche un’elegia sulla tanto vituperata Riviera Romagnola».

Se per questo trova spazio anche un monologo lirico su Pietro Pacciani. Scrivi e parli di Pacciani da una prospettiva che pochi, forse nessuno, hanno mai tentato: quella dell’empatia. Com’è venuta questa esigenza?

«Provavo pena per Pacciani già ai tempi del processo di primo grado. Era stato un orco in famiglia e aveva già pagato col carcere le sue colpe. Nonostante questo veniva raccontato come una sorta di male incarnato, faceva schifo a tutti, quindi al pubblico da casa andava benissimo che finisse i suoi giorni in carcere pagando anche le colpe di sedici omicidi che non aveva commesso. Montanelli lo definì: “il trionfo teorico della giustizia”. Se avessi potuto scegliere se prendere un Biancosarti con l’orco o con uno di questi presentabili giustizialisti col telecomando in mano, pure in quel caso non avrei avuto dubbi».

In una recente intervista su YouTube ci si riferisce alla tua come a una “comicità non impegnata”: ti ritrovi in questa definizione in negativo?

«Se s’intende che la mia comicità non è politicamente né civilmente impegnata, mi ci ritrovo in pieno. Ma del resto sono anche contro chi pensa che la comicità debba per forza far ridere e l’unico valore aggiunto che gli è concesso è far riflettere. Ragionando così, rimarrà sempre un’arte minore. La comicità dovrebbe essere un atto puro, selvaggio, astratto, malmostoso e misterioso anche per chi lo compie. Un comico dovrebbe pensarsi come un mistico, non come una macchina per il solletico né come un educatore».  

Una sensazione, correggimi se sbaglio: la tua scrittura mi fa pensare all’attitudine di chi ha messo per iscritto una certa naturale predisposizione alla “presa in giro”. Un sarcasmo che prende le distanze e al contempo prova ad avvicinarsi agli oggetti e ai personaggi che lo incuriosiscono.

«Ero così fin da piccolo. Ho sempre avuto il gusto per l’iperbole e tutto quello che mi schifava mi attraeva al contempo. Come il velluto, che non posso nemmeno sentir nominare ma che mi sono trovato ad accarezzarlo o addirittura a leccarlo, per gustarmi quella sensazione di impazzire senza ritorno per il nervoso».

Come fai interagire fantasia e realtà?

«Non ho un metodo, mi è sempre venuto naturale. Del resto la scrittura è il contrario della vita, puoi raccontare di paguri che dilaniano piranha e genitori che restano sempre giovani, quindi perché non farlo?».

Uno noto critico letterario che si è formato alla Normale di Pisa, Claudio Giunta, ha scritto due delle definizioni più lusinghiere sul tuo conto: “il miglior scrittore comico italiano”, aggiornandolo dieci anni dopo in “uno degli scrittori contemporanei italiani più originali e interessanti”. Non ti preoccupa esibirti a Pisa? E se tra il pubblico ci fosse lo studente di letteratura che tra cinque anni ti stroncherà con un “il più sopravvalutato autore italiano di sempre”?

«Non sono mai stato emozionato o teso prima di salire su un palco, anche perché non ho mai sognato di fare il comico. Poi mi sono esibito qua tante volte. Per il resto lo studente di letteratura faccia un po’ quello che vuole. Siamo la prima generazione in cui i giovani sono più vecchi di quelli come me, che faccio ottantuno primavere il giugno prossimo».

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