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L’epatite dilaga tra gli “invisibili” di Prato, corsa contro il tempo per curarli

di Paolo Nencioni
L’epatite dilaga tra gli “invisibili” di Prato, corsa contro il tempo per curarli

I risultati di uno studio di Firenze e Pisa su 422 emarginati: tutti quelli col ceppo C possono guarire

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PRATO. Gli emarginati si ammalano molto più facilmente di epatite B ed epatite C, ma se curati in tempo, quelli affetti da epatite C riescono a guarire praticamente tutti. È il risultato di uno studio delle’Università di Pisa e Firenze sui gruppi marginali della popolazione, che ha interessato anche Prato, con l’analisi di 422 persone alla mensa La Pira, alla scuola di italiano per stranieri "San Vincenzo de'Paoli", in alcune parrocchie “etniche” della Diocesi e all'Emporio della solidarietà della Caritas.

L’indagine, spiegano i ricercatori, ha riscontrato prevalenze molto più alte della media nazionale e in soggetti di età molto giovane. Inoltre, i soggetti positivi hanno avuto accesso all’assistenza clinica e, se necessario, alla terapia. Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista “The Lancet Regional Health - Europe”, con corresponding author Laura Gragnani, ricercatrice del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, e prima autrice Monica Monti del Centro MaSVE dell’Università di Firenze. Lo studio è stato finanziato da Gilead Science, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dalla Regione Toscana.

Tra il 2019 e il 2024, con una sospensione dovuta alla pandemia Covid, il gruppo di ricerca ha testato marcatori per le infezioni da epatite B ed epatite C in 1.812 soggetti che frequentano mense popolari, centri di accoglienza, scuole di italiano per stranieri nelle aree metropolitane di Firenze, Prato e Pistoia. Lo studio ha rilevato che il 4,4% dei partecipanti era positivo all’epatite B, segno di infezione attiva, mentre il 2,9% presentava anticorpi indicativi di un'esposizione al virus dell’epatite C.

La positività all’epatite B era più frequente tra gli uomini (91%) e individui di origine non italiana, provenienti soprattutto da aree con basse coperture vaccinali. I partecipanti positivi all’epatite C includevano una maggiore proporzione di cittadini italiani (51,9%) con storie di marginalità estrema spesso legate ad un pregresso consumo di droghe per via endovenosa.

Lo screening è stato effettuato direttamente presso le strutture di accoglienza, con test rapidi su sangue capillare e risultati disponibili in pochi minuti. Questa strategia ha garantito un’alta adesione, pari all’82%. Inoltre, la presenza di mediatori culturali e la collaborazione con gli operatori delle associazioni ha facilitato il collegamento dei pazienti positivi ai centri clinici locali.

Il 66,3% dei positivi all’epatite B e il 37,8% di quelli all’epatite C hanno iniziato un percorso di monitoraggio o cura, in base alla valutazione clinica. Tra i pazienti con infezione attiva di epatite C, tutti quelli trattati con farmaci antivirali hanno ottenuto la guarigione.

«Le infezioni da HBV e HCV possono evolvere in gravi patologie come la cirrosi e il tumore al fegato e molti dei soggetti colpiti non sono consapevoli della loro condizione fino alle fasi avanzate della malattia – spiega Laura Gragnani – Questo ritardo diagnostico è evidente nelle comunità marginali, che non sono raggiunte dai programmi di prevenzione e screening nazionali e regionali e che spesso incontrano barriere nell’accesso ai servizi sanitari, come la mancanza di informazioni, fiducia o risorse economiche. I risultati raggiunti col nostro studio dimostrano l'importanza di strategie di screening mirate per ridurre le disuguaglianze sanitarie, ridurre la circolazione di questi virus nell’intera comunità e raggiungere l’obiettivo dell'Organizzazione mondiale della sanità di eliminare le epatiti virali come minaccia infettiva entro il 2030».

«Questa ricerca – aggiunge Monica Monti – ha inoltre evidenziato l'importanza di “agganciare” e curare i soggetti marginali che spesso non accedono ai canali ufficiali di assistenza sanitaria».

Allo studio hanno partecipato anche la professoressa Gabriella Cavallini e la dottoressa Maria Laura Manca dell’Ateneo pisano e la professoressa Anna Linda Zignego, docente in pensione dell’Università di Firenze, direttrice del Centro MaSVE fino all’ottobre 2023. 

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