La pediatra in pensione: «Le mamme di oggi? Più ansiose e c’è un motivo. I padri invece...». Quella diagnosi che ora oggi la emoziona
La pediatra Anna Faraci ha curato generazioni di bimbi a S. Vincenzo e Piombino: «Lascio una professione che in questi anni è cambiata decisamente in meglio»
PIOMBINO. Per quasi quarant’anni ha svolto la professione di pediatra fra San Vincenzo e Piombino, seguendo intere generazioni di bambini, diventati poi a loro volta genitori di altri bambini che le portavano con fiducia perché ne seguisse il percorso. Tutto questo fino al 31 ottobre, quando la dottoressa Anna Faraci, piombinese (moglie dell’oculista Claudio Carducci, due figli entrambi medici e tre nipoti), ha chiuso dietro di sé la porta degli ambulatori per avviarsi sulla strada della pensione. Una decisione la sua – spiega – che specialmente negli ultimi giorni di attività, le ha lasciato dentro un po’ di malinconia, pensando a tutti quei bambini che aveva incontrato sulla sua strada e rivedendo mentalmente il lungo elenco di volti e storie che hanno fatto parte della sua vita: molte bellissime, alcune meno belle, altre purtroppo complicate, ma tutte degne di restare racchiuse nel cuore, come qualcosa di prezioso, di irripetibile.
Figlia di genitori separati, mamma casalinga che si è poi cercata un’occupazione come cuoca e babbo impiegato alle acciaierie. «Mio fratello, più piccolo di me di qualche anno, e io, che ai tempi della rottura fra i miei genitori di anni ne avevo 11, appartenevamo a un piccolo gruppo di famiglie separate, che allora rappresentavano l’eccezione», spiega la dottoressa Faraci confidando che, contrariamente al fratello che ha scelto di lavorare in fabbrica, lei ha sempre desiderato studiare e soprattutto frequentare medicina, nonostante quella scelta significasse grandi sacrifici economici. «Grazie al mio carattere determinato – dice – sono riuscita a realizzare, sia pure con fatica, ciò che desideravo».
Da dove è nato il desiderio di studiare medicina, seguito e poi da quello di specializzarsi in pediatria?
«Mi piaceva l’idea di curare gli altri e soprattutto quella di dedicarmi ai bambini».
Il primo incarico di pediatra dove le è stato affidato?
«Dopo la laurea ho fatto per tanto tempo solo le sostituzioni e ho lavorato nelle guardie mediche. Il mio primo vero incarico di pediatra l’ho avuto a San Vincenzo. Andò via una dottoressa e mi chiesero di sostituirla. Poi sono rimasta e, a parte il periodo di specializzazione all’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, non ho mai lavorato in ospedale, ma solo negli ambulatori».
Come riesce una pediatra, per di più donna e soprattutto mamma a sopportare la malattia dei bambini, specialmente quando è grave e con poche prospettive di un lieto fine?
«Riesce male, molto male. Fra l’altro quando mi io sono laureata Marco, il mio primo figlio, aveva un anno, e ogni suo piccolo disturbo mi metteva addosso una grande ansia, anche come mamma».
Ci sono stati pazienti, che una volta cresciuti, sono venuti a portarle i loro figli, dimostrandole oltre che affetto grande fiducia?
«Tanti, e soprattutto negli ultimi tempi moltissimi adolescenti hanno chiesto di avermi come loro medico fino a sedici anni, l’età massima permessa in pediatria».
Parliamo delle mamme di oggi. Sono più o meno ansiose di quelle di un tempo?
«Sono molto più ansiose, anche perché adesso fra le mamme si formano dei gruppi, che poi si fomentano a vicenda e tutto diventa più complicato».
E i padri? Partecipano attivamente alle visite o delegano le loro mogli?
«Partecipano molto di più di un tempo. Prima la gestione del figlio era solo della mamma o, quando era impegnata, della nonna. Ora, specialmente quando i bambini sono piccoli, i padri vengono, a volte addirittura da soli, e vogliono sempre essere ben informati».
Lascia una professione che è cambiata in meglio o in peggio?
«In meglio decisamente. Si lavora insieme, di solito in tre, e se non c’è presente una pediatra ce ne è sempre un’altra a sostituirla. Questo è bene per noi, ma anche per i genitori e i loro bambini».
I suoi figli hanno preso tutti la strada della medicina. È un vizio di famiglia?
«Direi di sì. Il primo, Marco, nato nel 1981 è medico del lavoro e il secondo, Andrea, dell’87, è oculista come il padre. Mentre mia nuora, Elisa Volterrani, moglie di Marco, è pediatra. E non è escluso, ma non dipende dall’Asl, che venga mandata a sostituirmi».
Nella sua famiglia ci sono anche tre nipoti.
«Ebbene sì, sono felicemente nonna. Marco ha due figli di 10 e 8 anni e mezzo che sono grandicelli ma ai quali sono contenta di fare la nonna con più tempo a disposizione. E Andrea ha un bambino di 15 mesi, a cui cercherò di dedicarmi con grande entusiasmo».
Ma farà solo la nonna o si è presa degli spazi per seguire interessi ai quali prima con il lavoro ha dovuto rinunciare?
«Sia chiaro. Non voglio essere una nonna a tempo pieno, ma solo quando serve. Per il resto ho già incominciato ad andare in palestra, passeggio molto e cerco di fare cose che prima accantonavo. Mi prendo insomma il mio tempo con serenità, anche se alla pensione non mi sono ancora del tutto abituata».
Facciamo un passo indietro e ritorniamo al suo lavoro. C’è stata una storia che l’ha particolarmente colpita in bene e un’altra che invece l’ha fatta soffrire?
«In tante storie che un medico e per di più pediatra può incontrare negli anni di professione, c’è sempre quella che non si vorrebbe conoscere. E ciò che fa stare molto male è vedere malattie gravi, come le neoplasie, in bambini che avrebbero diritto a vivere un’infanzia serena, lontano dagli ospedali. Però si prova una immensa soddisfazione quando tutto si risolve al meglio, com’è accaduto a un bambino che a 8 mesi di vita mi è stato portato per una visita di routine e a cui ho sentito una massa sull’addome che mi ha fatto allarmare. Ho parlato con i genitori, abbiamo approfondito, scoprendo che aveva un tumore ai reni. Quel bambino, che grazie a una diagnosi tempestiva è stato operato e ha sconfitto il tumore, oggi è genitore e mi ha portato più volte sua figlia a visitare, dandomi una delle più grandi gioie. Quelle che ti fanno amare più di ogni cosa il tuo lavoro anche nei momenti di grande stanchezza».
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