Il Tirreno

Toscana

Il caso

Massa Marittima, storia di un barbaro omicidio e di una moglie che non si arrende da 17 anni: «Cerco ancora giustizia»

di Elisabetta Giorgi

	ll furgone bruciato (foto Bruno) e la vittima
ll furgone bruciato (foto Bruno) e la vittima

La guardia giurata Raffaele Baldanzi morì in un assalto a un furgone blindato. La vedova: «I colpevoli sono ancora in libertà, ma io continuo a combattere»

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GROSSETO. Sono passati 17 anni dalla rapina in cui trovò la morte la guardia giurata di 41 anni Raffaele Baldanzi, e ancora non ci sono colpevoli. L’agguato, lungo la strada dell’Accesa a Schiantapetto - nel comune di Massa Marittima, in provincia di Grosseto - fu studiato dai criminali nei minimi dettagli. Era il 7 gennaio 2008 quando un camion tagliò la strada al furgone blindato in cui viaggiava Baldanzi, mentre una jeep Suzuki lo seguiva da dietro. I banditi, a volto coperto, gli tesero un agguato e si avvicinarono al furgone portavalori della Securpol armati di kalashnikov e dinamite.

Gli chiesero di aprire, lui non lo fece subito: partirono i primi colpi e l’uomo fu ferito a morte. La cassaforte fu fatta saltare in aria e i banditi portarono via circa 300.000 euro. Da allora non sono ancora stati individuati i responsabili e le ultime indagini effettuate su una lattina di Red Bull trovata a poca distanza dal luogo del delitto, e sulla quale sono stati compiuti accertamenti genetici, non hanno portato a nulla di fatto. Ancora una volta - per la terza volta - il pm di Grosseto ha chiesto nei giorni scorsi l’archiviazione al gip. Adesso ci sono 30 giorni di tempo per presentare opposizione. Non si dà pace Fiorella Ferroni, vedova Baldanzi. «La speranza si affievolisce di nuovo, anche se non muore», racconta lei a Il Tirreno, decisa ad andare avanti sempre e comunque.

Fiorella Ferroni, dopo tutto questo tempo ancora nulla di fatto sui responsabili dell’omicidio di suo marito.

«No, ancora nulla perché il dna rinvenuto sulla lattina di Red Bull che fu trovata a poca distanza dal luogo dell’omicidio non corrisponde a nessuno degli indagati. Siamo di fronte a un nulla di fatto. Eppure ogni volta che le indagini si riaprono si riaccende la speranza. Spero sempre in un piccolo passo in più, ma poi quando arriva la comunicazione della chiusura delle indagini la speranza si smorza: succede ogni volta. Dico che la speranza “si smorza” e non muore, perché se morisse vorrebbe dire che mi sono arresa e io non voglio farlo. Io credo che la perfezione sia rara, sul lavoro, nel gioco, in amore. Figuriamoci per risolvere il mistero di una rapina in cui è ucciso un uomo, ma arrivare alla verità resta una delle motivazioni per la quale non si dovrebbe smettere di indagare ed è quello che spero per me e per nostro figlio. Mi auguro che prima o poi arrivi una svolta decisiva che permetta di risalire agli autori dell’omicidio».

Dopo tutti questi anni - 17 anni in cui le indagini si sono riaperte e richiuse - cosa la spinge ad andare avanti e a non arrendersi?

«Non mi arrendo perché un uomo è stato ucciso in maniera efferata mentre svolgeva onestamente il proprio lavoro e i responsabili sono ancora in circolazione. Non mi arrendo perché non è giusto che queste persone siano libere e non stiano pagando per quello che hanno fatto. Non è giusto questo, perché Raffaele deve prima o poi avere giustizia. Raffaele è figlio di un’Italia onesta e ha il sacrosanto diritto che il suo Stato gli renda giustizia, quella giustizia di veder giudicato chi l’ha ucciso così barbaramente e vigliaccamente e di vedere chi sono queste persone. È per questo che ancora una volta non riesco ad arrendermi e ancora una volta cercherò di oppormi a questa decisione, e di andare avanti in qualche modo con il mio avvocato (Matteo Brogioni, ndr). Il mio intento è quello di tenere viva questa bruttissima storia: ci dev’essere giustizia per Raffaele. Voglio ringraziare di cuore la questura di Grosseto, che si è impegnata a far riaprire le indagini».

Chi era Raffaele Baldanzi? Come lo ricorda?

«Raffaele era un uomo buono, scrupoloso, che svolgeva il suo lavoro con grandissime onestà e dignità. Era un ragazzo molto tranquillo, perbene. Aveva il suo lavoro, suo figlio, i suoi hobby. Tra noi c’era ancora molto affetto e vivevamo per nostro figlio».

Se la sente di ricordare quel maledetto giorno in cui morì? Come venne a sapere della sua morte?

«Il 7 gennaio del 2008 ero al lavoro. Con Raffaele eravamo soliti sentirci, lui telefonava per chiedere del nostro bambino, ma quel giorno non lo sentii. Verso le 18-18,30 ricevetti una chiamata dal telefono di casa di mio suocero. All’altro capo del telefono c’era un dipendente della Securpol - l’azienda per la quale lavorava Raffaele - che mi disse che c’era stato un grave “incidente”. Questa persona era molto presa emotivamente, io capii subito che era successo qualcosa di grave ma non sapevo cosa. Seguirono telefonate frenetiche, concitate ai miei familiari, all’inizio non capivo cosa stesse accadendo ma poi la notizia arrivò, e fu tremenda. Uno choc. In quel momento dovevo anche pensare a mio figlio, che era piccolo, dovevo proteggerlo. Eravamo improvvisamente catapultati in un mondo che non ci apparteneva, andai a casa dei miei suoceri. Nel tempo questa storia è diventata per me una battaglia, che sto cercando di portare avanti e non voglio lasciare sulle spalle di mio figlio. Il dolore non passerà mai nemmeno a lui, ma quanto meno, se mai arriveremo a una soluzione, non gli avrò lasciato questa tragedia da portare avanti. So che è difficile continuare. I responsabili sono ancora in circolazione ma io prima di andarmene da questo mondo vorrei veramente chiudere il cerchio e arrivare alla verità. Perché la cosa peggiore è che chi ha ucciso Raffale è ancora libero, che ogni volta che tutto ricomincia daccapo - ogni volta che si riaprono le indagini - il dolore si rinnova. È tutto difficile da sopportare e accettare, ma io vado avanti e non mollo, perché una giustizia per Raffaele ci dev’essere».


 

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