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Quando Picchi, Lessi e Capecchi sfinirono Suarez sui bagni Fiume: le estati a Livorno dei grandi dell’Inter

Armando Picchi e Luisito Suarez escono dai Fiume dopo la gabbionata, Max Allegri nel gabbione dei Fiume
Armando Picchi e Luisito Suarez escono dai Fiume dopo la gabbionata, Max Allegri nel gabbione dei Fiume

La città e il suo gabbione hanno scritto un pezzo importante del calcio italiano

22 settembre 2024
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Dicono che la classe, la fantasia, il tocco di palla, il tackle ruggente, il tunnel irriverente non si possano ingabbiare. Che non esistano steccati, muri e palizzate capaci di arginare il calcio, come lo scoglio e il mare poetato da Lucio Battisti. Invece sì, a Livorno si poteva, e si può, in riva al nostro mare il football e la sua essenza sono stati compressi dentro un’arena di cemento e rete metallica: al secolo, il gabbione. Un moderno Colosseo di 25 metri per dieci dove la palla non esce mai, dove la sponda diventa la migliore delle amanti se la giocata ti riesce o la nemica più acerrima se la palla non te la restituisce come tu vorresti.

Se Livorno e il suo gabbione hanno scritto un pezzo importante del calcio italiano, una storia di provincia, radici e appartenenza che sembra nata dalla penna di Eduardo Galeano il nostro pensiero deve andare ai visionari che hanno immaginato un calcio diverso, estivo certo, ma senza sconti, per cuori forti, ritmi infernali sotto un sole bello come solo il nostro può essere.

Oggi siamo qui, tristi, malinconici, con la lacrima a stento repressa, a dire grazie ad Enrico Capecchi, che del gabbione fu uno dei padri fondatori, dei padri costituenti. Enrico se n’è andato a 89 anni, dopo una vita spesa a inseguir palloni, livornese puro, sanguigno: il suo era il calcio di dominio mentale, prima che tecnico, che condivideva con i sodali degli anni ruggenti: Costanzo Balleri, Mauro Lessi, e soprattutto Armando Picchi. A loro, che di calcio non erano mai sazi, nemmeno dopo stagioni consumate a vincer Coppe dei Campioni o masticare il pane duro del calcio di provincia, l’estate di mollezze, bagni, tintarella e partite a scopone non bastava, non poteva bastare.

Loro, uomini prima che calciatori, volevano trovare un modo per stare insieme, per divertirsi e competere facendo girare quella palla, tormento ed estasi, benedetta e maledetta compagna, ossessione perenne.

I Bagni Fiume furono il laboratorio, la bottega del Verrocchio dove Leonardo da Vinci-Picchi immaginò il capolavoro: il campetto da basket in cemento, utilizzato dai boys livornesi tra un bagno e l’altro, venne trasformato proprio dal capitano dell’invincibile Inter in un’arena con tanto di rete di recinzione e porte piccolissime, dove il gol era un Sacro Graal da conquistare, roba per piedi goniometrici.

Enrico, Armando, Costanzo, Mauro e qualche altro temerario iniziarono così le loro sfide dentro quella macchina infernale di sponde, passaggi laser, dribbling di Garrinchiana fattura, parate opponendo il petto sudato e abbronzato a missili a cento all’ora, con i pesanti palloni che ti lasciavano le stimmate sulla pelle. Il gabbione aveva emesso i primi vagiti.

Al mago Herrera, su a Milano, questo divertissement estivo piaceva il giusto. Temeva che in quel groviglio di gambe, piedi e fatica il Capitano con il numero 6 potesse farsi male, e sarebbero stati guai perché liberi come Armando, in Europa, erano davvero merce rarissima. Ma Enrico ed Armando non se ne curavano troppo: le gabbionate erano un rito, un sabba pagano, un modo per sfottersi, per vincere o perdere le cene in riva al mare, quando il sole cala e da Montenero arriva quella carezza della sera.

Il gabbione diventò argomento di discussione anche ad Appiano Gentile, che da pochi anni era diventata la casa dell’Inter, voluta (e pagata) da Angelo Moratti, passione e portafoglio senza confini. Armandino sapeva che i compagni, che stavano dominando gli anni Sessanta dagli Appennini alle Ande, giocatori di spessore mondiale, Palloni d’oro, nel gabbione sarebbero stati ridotti quasi a comparse, perché quello era proprio un altro gioco.

In estate, quasi per scommessa, invitò a Livorno Luis Suarez, l’architetto spagnolo di quella squadra irripetibile, brillantina e testa alta, regista visionario, qualcosa di mai più visto. Luisito, ai bagni Fiume, contro Enrico Capecchi, Lessi e Falorni non ci capì niente. Altro che ruggito di San Siro, qui la palla volava da una sponda all’altra, gli avversari ti zompavano (con rispetto) sulle caviglie e manco te ne accorgevi.

Negli anni, nelle estati che vennero il supplizio toccò a Mariolino Corso, il genio della foglia morta, al leader maximo Giacinto Facchetti, a Tarcisio Roccia Burgnich: come non detto, tutti respinti con perdite. Tanti calciatori, non solo livornesi, si sono poi cimentati nell’inferno di 25x10: Max Allegri (che conosce tutti i trucchi e si vede), Leonardo Pavoletti su tutti, fino a Igor Protti e ai fratelli Lucarelli.

Allenatori immaginifici come Corrado Orrico, Gigi Maifredi, Arrigo Sacchi, Roberto Donadoni, Silvio Baldini hanno mutuato l’idea del gabbione come sistema d’allenamento, ma non poteva essere la stessa cosa. Perché il gabbione, unico e solo, deve avere il mare di Livorno in faccia, il sole in fronte e sentire la carezza di Montenero. Enrico Capecchi, che ci ha lasciato in queste ore, lo aveva capito prima di tutti. Per questo, ci togliamo rispettosamente il cappello.


 

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