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Gli scoppi, le torte e le “pisalanche”: i riti antichi della Pasqua viareggina

di Stefano Pasquinucci
Le pisalanche, le altalene in pineta
Le pisalanche, le altalene in pineta

Un tuffo nelle tradizioni popolari che rendevano indimenticabili le giornate di festa dalla Domenica delle Palme al Lunedì dell’Angelo

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VIAREGGIO. Il periodo pasquale a Viareggio, così come in molti altri luoghi del mondo, si rinnova ogni anno nel segno di antichi riti popolari, storiche tradizioni religiose, ricordi, colori e profumi. Per raccontarlo parto dalla Domenica delle Palme. È il giorno attraverso il quale la Chiesa cattolica ricorda l’entrata di Gesù a Gerusalemme sul dorso di un asino, mentre la gente intorno a lui lo accoglieva sventolando palme. In questo giorno andavamo (andiamo) a messa, belli cambiati e “rispulizziti” (parlo dei bambini di oggi e dei bamboretti di ieri), portando con noi rami di ulivo intrecciati con nastri colorati, per farli benedire. Quei mazzetti che, appesi sopra qualche quadro delle pareti di casa o posizionati in luoghi strategici, con il passare del tempo si seccano e si riempiono di polvere, ma non perdono il loro profondo significato.

A questo punto, prima della visita alla sette chiese, fermiamoci a giocare per qualche riga con gli scoppi di Pasqua. Si tratta di una vecchia tradizione che col passare degli anni si è perduta. Si realizzavano in due modi: il primo consisteva nel mettere all’interno del dado di un bullone della carta per sigillare il foro, poi all’interno della cavità si mettevano polvere di potassio e di zolfo e, quindi, si riavvitava con molta precauzione il dado alla vite e si lanciava il bullone in alto. Quando ricadeva, l’impatto con l’asfalto provocava uno scoppio. Altre volte si lanciava contro la facciata di una casa. In questo caso, oltre a sentire lo scoppio, vedevamo cascare grossi pezzi di intonaco, con poco gioia da parte dei proprietari.

Il secondo modo, invece, necessitava di due piastre di marmo sovrapposte, all’interno delle quali mettevamo polvere di potassio e di zolfo per poi fare pressione sopra le piastre con il tacco della scarpa del piede sinistro. A questo punto, con il tallone del piede destro, si colpiva il tacco del piede sinistro. L’impatto prodotto, fatto con un movimento rapido, provocava lo scoppio e, a volte, la perdita di uno dei due tacchi della scarpa. Ed era con quella scarpa, in casa ne avevamo davvero poche, che assieme a genitori, nonni, fratelli e sorelle partecipavamo al rito della visita delle sette chiese. Chi come me era nato ed abitava in via Garibaldi, ma la stessa cosa accadeva per tanti altri viareggini, quella camminata serale non poteva che iniziare dalla Santissima Annunziata. Ricordo il vocio sommesso delle persone, i saluti negli sguardi, il calore umano nei cuori, la luce calda e tremolante delle candele, il tripudio di colori e profumi dei bellissimi fiori posizionati sugli altari. La visione delle bancarelle di dolciumi, il desiderio irresistibile e, spesso, inevaso di un pezzo di menta, una fetta di croccante, un sacchetto di lupini. Uno scenario che caratterizzava la sera del Giovedì Santo, tutto il Venerdì Santo e buona parte del Sabato Santo. Sette chiese, sette tappe di un vero e proprio pellegrinaggio, rappresentativo dei viaggi di Gesù, dalla notte in cui è stato catturato fino alla crocifissione.

E siamo al venerdì (a volte anche al sabato), giorni che precedono la Festa vera e propria della Pasqua. Era il momento di preparare le torte, tassativamente di semolino e cioccolata. Ognuno in casa, ricorrendo a ricette tramandate a voce e perfezionate con l’esperienza, realizzava le proprie, predisponendole in vecchie teglie dalla forma tonda e dall’età incerta. Si bolliva il riso, si cuoceva il semolino, si spargevano chili di farina sul tavolo di legno o sui pianali di marmo, si creava la pasta. Si passava, poi, alla cioccolata, si aggiungevano i canditi, si imburravamo le teglie, si leccavano mestoli e scodelle. E lo spettacolo non era finito, anzi per molti versi doveva ancora iniziare. Sì, perché, a questo punto in ogni teglia, ornata sapientemente di strisce incrociate di pasta, si posizionava un pezzetto di cartone con su scritto un numero ed un nome, per riconoscerle una volta pronte. Fatto questo, utilizzando magari un carretto, si usciva di casa per raggiungere il forno. Nel caso della mia famiglia e di quella dei vicini, la meta era il forno del Martinelli che si trovava in via Felice Cavallotti. E nel forno le torte cuocevano, “prendevano vita” per essere, poi, pronte per il ritorno a casa. Il tragitto era, allora, l’occasione per profumare le strade di una mescolanza di odori che ancora oggi, se chiudo gli occhi, sento essere posizionati nelle parti più profonde e personali di me stesso. Ancora calde venivano coperte da strofinacci o panni da cucina e disposte nei luoghi più diversi della casa, compresa la parte più alta degli armadi di camera da letto dei nostri genitori. Qui, accadeva più spesso di quanto possiamo pensare, alcune delle torte venivano dimenticate e “riapparivano” in estate, immangiabili perché coperte di muffa.

E siamo alla domenica di Pasqua. Per andare alla messa “ci si mutava”, ovvero si indossavano i vestiti, pochi, della festa. Spesso erano i soliti degli anni precedenti, ben lavati, ed adeguati alla inevitabile crescita del corpo. Per noi maschietti ricordo i calzoni all’inglese, ovvero che arrivavano al ginocchio; per le femmine scarpe e calze (non sempre) bianche, gonne e maglioncini dai colori delicati, pastello. Le uova di cioccolata non erano ancora molto diffuse, ma c’erano le uova sode che, nei giorni precedenti, con grande impegno ed orgoglio artistico, avevamo colorato a scuola. Le portavamo in chiesa per farle benedire e, poi, un pezzettino per uno, le mangiavamo per davano inizio al pranzo pasquale al termine del quale, finalmente, potevamo gustare una o più fette delle sopra indicate torte.

E dopo Pasqua, Pasquetta. Il lunedì, come accade in molti casi ancora oggi, era il giorno della scampagnata in pineta. Il giorno delle pisalanche, un termine che potrebbe derivare da “pesa l’anca”. La scampagnata, infatti, prevedeva innanzitutto lo stare insieme, la condivisione del tempo, l’amicizia tra persone. Il pic-nic con avanzi del giorno prima, altre fette di torta e qualche piatto speciale cucinato per l’occasione e, appunto, le pisalanche, le altalene. Erano i più giovani, sotto lo sguardo attento ed affettuoso dei padri e dei nonni, che facevano a gara a che posizionava le funi nel punto più alto tra due tronchi di pini. Nel punto più in basso, invece, veniva legato un cuscino od una tavoletta di legno. A questo punto iniziavano i “dondoleggiamenti”, sempre più veloci, che andavano sempre più in alto, tra risate ed espressioni meravigliate ed incredule dei presenti.

La Pasquetta, in tempi più remoti, era anche l’occasione per incontrare le venditrici di nocelle. Gran parte di loro arrivavano da Massa e offrivano al grido di “Nocelle! Nocelleeeeee! ”, filze o collane di nocelle intrecciate attorno ad un filo. A sera si tornava a casa stanchi, ma contenti. Qualche amore era sbocciato, altri sarebbero nati nelle settimane seguenti, così cariche di quell’aria estiva che stava per arrivare e con essa quella dei bagnanti e di tutto ciò che l’estate rappresenta per Viareggio.

A proposito di Pasqua c’è un dettaggio che dice: “Doppo Pasqua’ un son più bòni né cavolfiori né prediatori”, ossia le cose vanno bene solo quando è il loro tempo, il loro momento. Non dimentichiamolo. A proposito di dimenticanze, mi rendo conto che, giunto al termine di questo racconto, non ho parlato della Colomba. Come per l’uovo di cioccolata, ai mie tempi non era molto presente. Sicuramente non come oggi che la vedi apparire, negli scaffali dei supermercati, quando ancora la Burlamacca non è scesa dal pennone di Piazza Mazzini. Anche per questo motivo, nel salutarvi, vi lascio con un’altra colomba, quella che è simbolo di pace e riconciliazione, presente nel racconto del diluvio universale. Finita la pioggia, infatti, Noè fece uscire in esplorazione una colomba che ritornò portando un ramoscello d’ulivo, segno del perdono di Dio nei confronti degli uomini. Oggi, soprattutto, sapremo meritarci questo perdono? Speriamo! In attesa di vedere come vanno le cose, tanti sinceri auguri a tutti.

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