A Natale tra i carcerati, il messaggio del Papa e la musica di Jovanotti
Qui si attende la rinascita
Quante volte ho superato quelle sbarre nei giorni di Natale, e che emozione averlo visto fare dal Papa a Rebibbia, un atto altamente simbolico che racchiude un messaggio di misericordia, speranza, uguaglianza, rivolto ai dannati della terra. Così come quello del nuovo vescovo di Firenze che ha celebrato la messa di Natale con gli ultimi e gli esclusi. Per le feste, dentro le carceri, c’è sempre un’atmosfera ancora più triste e amara. Passando davanti alle celle è un lento lamentio di suppliche, richieste, anche di auguri. Qualcuno ti riconosce, si avvicina, sorride e chiede. La famiglia, la lontananza. Ricordo l’albero di Natale sintetico nel corridoio stonacato. Cancelli e porte sprangate. Più in là, protetti da cartone finto bosco, ecco le pecorelle e i pastori in processione verso la capannuccia col bambin Gesù. «Anche se qua», diceva il personale in servizio «la maggioranza è musulmana».
Una volta, a Sollicciano, mi accompagnò Lorenzo Cherubini per un piccolo concerto, era il 31 dicembre. Ho ancora gli appunti di quello che disse: «Che ci si possa sempre rialzare fino all’ultimo attimo, come in una mia canzone. Ognuno ha una sua storia, fatta di bellezza, a volte di tragedia, di errori che si pagano. Anche se le nostre vite sembrano così diverse, spesso sono più le cose che abbiamo in comune di quelle che ci dividono. Poi ognuno ha la sua storia, il suo cammino e le sue cadute. Ma la possibilità di rimettersi in piedi è quello che auguro a tutti. Con la mia musica parlo della vita, senza giudizio, senza morale. Ognuno ha la sua e se la gioca con la propria coscienza». Ricordo Luca che ascoltava incantato Jovanotti con occhi inumiditi e smarriti. Poi venne a parlare con me, confidando in chissà quale mio potere. Parlò sottovoce e lentamente di condizioni inumane, di un improbabile parente che avrebbe dovuto accoglierlo in una cittadina sul mare. Parlava mentre i suoi occhi si posavano struggenti su una grande farfalla tatuata sul braccio, quasi a chiederle di prendere il volo, di portarlo lontano da quell’inferno. Le dita abbrustolite dalle sigarette fumate convulsamente, una via l’altra. Luca, poco più che vent’anni, un corpo enorme e semi-inanimato, una mongolfiera triste dai colori spenti e senza energia. Una mongolfiera che difficilmente avrà ripreso il volo.
Luca fumava, parlava e addentava un panino prelevato nella sacca-dispensa attaccata alla porta della cella. Anche quella volta ascoltai dirigenti, gli agenti, i medici. Al solito ti spiegano gli sforzi, le assenze di risorse, i lavori di ristrutturazione mai finiti, la muffa, l’umidità, l’indecenza, la cronica carenza di personale. Prima di uscire e ci apparve un gigante dalla pelle nera e dagli occhi tristi e scuri, mani serrate sulle sbarre. Ci guardò severo, intensamente. Sembrava l’immagine in piano americano di un crudo film di Oliver Stone. Ci guardava e non parlava. Lo fece per lui la sua maglietta rossa con la scritta: «la vita è dura... e poi muori». Amara ed essenziale esegesi del viaggio nelle galere. In carcere, a Natale, forse qui, più di ogni dove, si attende la rinascita. Invano?
*scrittore e attivista per i diritti