Il Tirreno

L’intervista

Rocco Toscani racconta il padre Oliviero. Il rapporto, la sofferenza e gli insegnamenti: «Ecco come lo ricorderò»

di Ilenia Reali
Una foto dei due insieme
Una foto dei due insieme

Il figlio: «Sappiamo cosa fare sebbene non ce l’abbia detto: porterò avanti l’azienda agricola che era la sua passione»

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CASALE MARITTIMO. Suo padre gli ha insegnato a dire quello che pensa. Senza timore. Rocco Toscani, il figlio di Oliviero, quello che gestisce l’azienda di Casale Marittimo, quello che più di altri gli è stato vicino (almeno fisicamente) ha un tratto gentile. Neppure lui è banale. Oliviero non gli ha preso la mano nell’ultimo respiro, non si è confessato, scusato, non ha usato parole per congedarsi. Il linguaggio schietto era ammorbidito, forse, dagli sguardi, dalle espressioni del volto impercettibilmente modificate, nel silenzio. A cavallo, lungomare. L’immagine che Rocco Toscani terrà dentro di sé, quella non è stampata, che non è su un pc, quella che lo fa cedere a un’emozione forte. Complessa. Come lo era suo padre, Oliviero Toscani.

Rocco, come è stato quando suo padre ha saputo di essere malato?

«Nessuno era pronto alla sua malattia, lui ancora meno. Quando cominciò a non poter tenere la macchina fotografica in mano tutto fu complicato. Alla frustrazione della malattia si aggiunse la frustrazione di non poter lavorare. Accadevano una serie di cose anche abbastanza velocemente, stava sempre più male».

Parlava con voi della sua sofferenza?

«Si è chiuso nel silenzio. Aveva quelle due, tre persone con cui ragionava. Ha fatto più un percorso di chiusura, che di apertura, alla malattia. Era triste, dal momento in cui non ha più potuto lavorare, si è chiuso in casa».

Eppure ha fatto la scelta di raccontare pubblicamente che era molto malato. L’ha fatto sul Corriere della Sera. Voi sapevate che lo avrebbe fatto?

«No. Io sono andato in casa sua e c’erano la troupe, i giornalisti».

Non si era confrontato?

«Ma nooooo, non era da lui. Era un “one man band”. Lui andava avanti e se eri capace di stargli dietro bene, altrimenti lui andava avanti uguale».

Quindi, in famiglia, lo avete seguito tutta la vita?

«Forse sì. Era complicato e allo stesso tempo molto piacevole. Era una persona che ti “portava” tante cose, come è stato complesso nel suo lavoro, lo è stato per tutti noi. Il suo modo era quello. A casa non era diverso. Toscani era così sempre».

Quando si è accorto che stava per morire?

«Me lo ha detto la prima volta quasi un anno fa. In una delle nostre discussioni mi ha detto “Ma io sto morendo”. Io gli ho risposto: “Macché, intanto ora sei vivo”».

Lei è stato il figlio con il rapporto più stretto con suo padre, giusto?

«Sono quello che segue l’azienda dove lui viveva. Sono quello che gli era più vicino fisicamente. Ma siamo tutti molto vicini».

Lui prima di morire non vi ha detto nulla, non ha fatto una sorta di testamento morale con la moglie, coi figli?

«Lui aveva paura di questa cosa, era un argomento tabù. In casa noi non ci siamo mai messi intorno al tavolo a dire “tu fai questo, tu ti occuperai di quest’altro, tu sei portato per quest’altra cosa”. Qui da noi era il far west. Lui era molto energico, molto generoso ma allo stesso tempo era anche molto egocentrico. Mia sorella, quella che vive in America, lo prendeva in giro, diceva “prima c’è il Toscani, poi tutti gli altri”. Non lo dico con un’accezione negativa, era solo così. Era anche una persona semplice, non c’erano decorazioni inutili. E infatti non le ha volute neppure dopo la sua morte. Su questo ci ha lasciato detto tutto».

Quindi non ha detto le cose che tutti dicono, se possono: quel “prenditi cura di…”

«No, queste cose in casa nostra non si dicono. Lo sai cosa devi fare, e basta. Ognuno sapev a sempre dove, come fare. Non mi ha preso la mano, se intende questo. Non l’ha mai fatto e non l’ha neanche mai preteso. Aveva sicuramente paura, però. Io ero quello che lo prendeva in braccio, lo alzavo se cadeva. Una delle cose più forti che mi ha detto tornando dall’ospedale, tra la carrozzina e il catetere, è stata: “Era meglio l’Alzheimer”. Io: “Almeno sei lucido”. Nient’altro. Non ha avuto un bel fine corsa…

Ha sofferto molto?

«Tantissimo. Era impressionante. Mi domandavo, ogni giorno guardandolo, come potesse una persona stare un anno e mezzo a soffrire così. Faceva fisioterapia tutti i giorni, lottava, era propositivo. E aveva paura. Non ha mai sopportato il dolore nella sua vita e invece l’ha dovuto fare. È stato un calvario. Vedere un leone come lui, strapazzato, è stata una tortura».

Qual è allora il modo con cui ricorderà suo padre? Noi attraverso le sue fotografie. Qual è la sua immagine, quella che porterà dentro?

«A cavallo».

La sto straziando con questa intervista. Mi rendo conto…

«Riprendo fiato. Un attimo solo. Ora riesco a parlare: a cavallo, al mare, nelle giornate di Tramontana».

Mi perdoni per quello che le dirò. Tanti di noi hanno avuto la percezione che Toscani fosse una persona scostante, incapace di grandi affetti, un antipatico. Le sue lacrime, scontate per un figlio, però, ci avvicinano a un altro Toscani. Diverso rispetto a quello a cui, da lontano, eravamo abituati…

«No, no. Era antipatico, è vero. Ma era corretto, aveva la schiena dritta. Lui quello che aveva bisogno di dire lo diceva, non aspettava un attimo. Era una lama, era feroce. Lo faceva con tutti. Non girava mia intorno a nulla».

È questa sua schiettezza l’insegnamento più bello?

«Porta avanti quello in cui credi e fallo fino in fondo. Non cambiare strada. Sii fedele, onesto con te stesso. Zero scorciatoie. E ancora: se hai un’idea bellissima ma non la porti a termine non hai fatto niente. È questo il suo insegnamento più bello».

Lui aveva un rapporto difficile con le prime figlie, ora cosa accadrà tra voi?

«Siamo cresciuti molto separati con le sorelle, quelle che non sono figlie di mia madre. Non siamo stati tenuti come fratelli. Ma questa è una cosa sua, di mio padre. Io non posso giudicare. Io ho ricreato un rapporto con i miei fratelli, quelli con madri diverse, ho fatto un processo di riavvicinamento. Ci sono scheletri nell’armadio che loro, mio padre, non ha risolto ma io non ho fatto niente a loro né loro a me. Sono sereno. Ci siamo sentiti più volte. Ho anche un fratello avuto da una terza donna, francese. Abbiamo un ottimo rapporto».

Come porterete avanti il ricordo di suo padre?

«Io con l’azienda agricola che era la sua grande passione. L’ho trasformata in un’azienda che produce vino, sviluppandola. C’è già una bottiglia dedicata a lui che si chiama Ot. Abbiamo uno spazio molto bello in mezzo alla vigna dove c’è il suo archivio. Vorremmo tutti farne un centro culturale, vorremmo continuare il suo impegno nell’arte, nella campagna. Lui non ha mai investito in mattoni, lui comprava i campi. Chiamava i posti coi nomi dei campi, mai delle case. Faceva un altro mestiere ma mi ha passato questa passione. È chiaro che è stato un mito e quella forma d’arte che lui ha portato avanti per anni dovremmo fare in modo che continui. Io cerco di farlo col vino. Non potrà essere esattamente quello che voleva lui ma ci metto quello che era lui: etica, rigore, spavalderia, coraggio, alzare il livello, divertimento. Il suo lavoro era la sua passione e non mi ricordo un giorno di festa. Quando andavamo in viaggio era sempre perché lui era lì a lavorare».

C’è una cosa che non gli ha detto per pudore?

«No, mi sento in ordine».

Quando avete litigato l’ultima volta?

«Tutti i giorni. Era un rompic... Ma erano litigi da cui uscivi e un po’ lo mandavi a fare in c… ma poi ci ragionavi perché le sue analisi erano molto schiette e molto giuste. Le sue critiche facevano male perché aveva ragione. Ti faceva ripartire ogni volta, spesso con rabbia. Era il capo. Anche un po’ padre-padrone. Ma i suoi commenti non erano mai banali. La gente diceva che era antipatico perché lui diceva le cose che non diresti mai ma sono proprio quelle che, se ti soffermi, ti fanno anche ragionare. Ha parlato di razzismo, Aids, omosessualità quando non ne parlava nessuno. Per lui era normale. Lui diceva tutto. Nella vita e nel lavoro».

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