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Il ricordo

Addio Joe Bryant: dalle magie a Pistoia alla vita in montagna, chi era il babbo di Kobe che amava la Toscana

di Lorenzo Mei
Kobe Bryant e il padre Joe
Kobe Bryant e il padre Joe

A 69 anni è morto in seguito a un malore: incantò la città coi suoi canestri. Il ricordo di Mario Boni: «Un gigante con doti tecniche micidiali»

17 luglio 2024
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Prima di essere il giocatore che la domenica bombardava i canestri avversari, Joe Bryant, che è morto martedì 16 luglio a 69 anni per le complicazioni di un recente malore, era un personaggio unico. Quando giocava a Pistoia, dove la notizia ha subito colpito tanti appassionati, ma anche i tifosi che lo avevano ammirato alla fine degli anni Ottanta, aveva deciso di sistemarsi a Cireglio, sulla Montagna Pistoiese a mezz'ora di macchina dalla città, perché amava la tranquillità e la vita familiare.

Un rapporto speciale

C’era voluto poco perché facesse amicizia con i residenti, tanto che ogni domenica organizzava un pullmino per portare alla partita chiunque non volesse perdersi le gesta sue e dell’Olimpia. Era l’inizio della scalata, il primo anno di serie A2, quando il general manager Alfredo Piperno decise di affidare le chiavi dell’attacco a questo incredibile fromboliere, uno dei realizzatori più spaventosi che si siano mai visti nel campionato italiano, non solo a Pistoia. Rimase due stagioni, la prima in realtà giocata in “esilio” in quello che oggi si chiama Mandela Forum di Firenze, mentre gli operai e le gru facevano nascere il PalaCarrara in viale Fermi.

La famiglia

Con lui a Cireglio vivevano la moglie Pamela, le due figlie Shaya e Sharia, e naturalmente il più piccolo, Kobe, che poi diventò una delle stelle più luminose nella storia della pallacanestro di tutti i tempi. Proprio a Pistoia, dopo gli anni di Rieti e Reggio Calabria, Kobe aveva cominciato a giocare con i ragazzi della sua età, dimostrando subito di poter mettere i piedi nelle orme del padre, per poi fare una carriera molto più eclatante, e morire ancora giovane all’inizio del 2020 in un tragico incidente in elicottero, in cui perse la vita anche l’adorata figlia Gigi.

L'arrivo in Toscana

Quando arrivò a Pistoia, “Jelly Bean”, come lo chiamavano in America, era all’apice del rendimento. La dirigenza riuscì a fargli firmare un contratto con cui, schierandolo in coppia con Leon Douglas, mise al sicuro la salvezza: 30 punti erano assicurati, ma spesso passava i 40, e gli capitò di sfiorare i 70 (69) quando giocava a Reggio Calabria. Nel secondo anno a Pistoia, quando lo sponsor Kleenex prese il posto dello storico marchio Maltinti e la maglia diventò temporaneamente biancoazzurra, a guidare il quintetto pistoiese c’era Claudio Crippa, che è molto colpito dalla notizia e tesse le lodi del compagno: «È uno dei tre più forti con cui abbia giocato - dice subito - e io ho giocato con tanti americani bravi. Non ho mai visto un giocatore di quelle dimensioni (era alto 2,06, nda) dominare le partite sia a livello tecnico che per la leadership. Era trent’anni avanti, perché oggi in Nba uno come lui sarebbe ricercatissimo, senza un ruolo preciso, tecnica incredibile, capacità di incidere nei momenti decisivi».

Di padre in figlio e i ricordi

Crippa dice senza paura che «tecnicamente era più forte di suo figlio, poi Kobe naturalmente era un martello, un atleta con una mentalità vincente, ma Joe giocava come pochi, solo che a lui interessava di più regalare momenti di gioia al pubblico, e infatti per Pistoia prendere un giocatore simile appena affacciata alla serie A2 fu un colpo perfetto, fece due anni di spot per il basket». Anni in cui era viva la rivalità con Montecatini, concretizzata nel derby del Serravalle, che avrebbe potuto - ad avercelo - riempire un palazzo da diecimila spettatori. Protagonista assoluto in maglia rossoblù naturalmente era Mario Boni, che è molto addolorato: «Ho ricordi bellissimi, soprattutto legati al camp di Cutigliano, dove ogni estate eravamo entrambi istruttori - racconta -. Joe era una persona fantastica, con una famiglia eccezionale. Sempre tutti sorridenti, gentili, felici. Lo stesso succedeva al torneo Piattelli a Montecatini, dove per la prima volta vedemmo Kobe all’opera segnare tre bombe da dodicenne». Parlando del Bryant giocatore, anche Boni non va per il sottile: «Era uno di due metri e sei che poteva portare la palla, con doti tecniche micidiali, un giocatore che purtroppo non si vede più, e che probabilmente pagava pregiudizi per il fatto che amava le giocate spettacolari. Era un gigante». Dopo aver lasciato la Toscana, Bryant in Italia aveva messo un’altra maglia, quella di Reggio Emilia. La famiglia è ancora legata a Pistoia, e messaggi di condoglianze sono arrivati sui telefoni delle figlie dai tanti amici di allora. Forse il modo giusto per ricordarlo è questo: in tutto il mondo Joe era il padre di Kobe, a Pistoia, invece, Kobe era il figlio di Joe.


 

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