Monte Serra, le motivazioni della sentenza di Appello: «Il piromane è Franceschi» (ma con pena ridotta)
I giudici: «Assoluta fondatezza dell’accusa». Pena da 12 a 10 anni per il venire meno del concorso formale dei reati
CALCI. Giacomo Franceschi è il piromane dei Monti Pisani. Lo scrivono i giudici della Corte di Appello di Firenze nelle motivazioni della sentenza che, lo scorso giugno, ha visto l’ex volontario dell’antincendio boschivo condannato a dieci anni. Due in meno rispetto alla sentenza di primo grado: uno sconto, come vedremo, dovuto a un aspetto formale. Perché, sul piano sostanziale, i magistrati del collegio fiorentino non hanno avuto dubbi nel confermare la sentenza del Tribunale di Pisa su quello che è stato il disastro ambientale più grave del territorio, con 1.200 ettari andati in fumo a partire dal 24 settembre 2018.
Decisiva è stata la valutazione dell’incontro con gli inquirenti del 18 dicembre 2018, nel quale Franceschi (che era già stato ascoltato altre due volte ed era già intercettato) era entrato come persona informata sui fatti ed era uscito come indagato in stato di fermo dopo che aveva reso dichiarazioni che lo incriminavano. Secondo la Corte di Appello, «l’assoluta fondatezza dell’accusa rivolta al Franceschi deriva in primo luogo» proprio da quelle dichiarazioni, «rese inizialmente in modo spontaneo, ripetute in sede di interrogatorio, verbalizzate in modo corretto, assolutamente inspiegabili e prive di giustificazioni in ogni diversa prospettiva». Perché se da una parte è vero, che la ricostruzione da lui data in quell’occasione non è stata del tutto coerente (non ha confessato apertamente di aver appiccato l’incendio, limitandosi a «poter presumere» che il fuoco fosse partito da un foglio di carta da lui bruciato), dall’altra, «questo non esclude affatto la rilevanza probatoria di quelle dichiarazioni, come correttamente evidenziato dal Tribunale, che le ha valutate non alla stregua di un semplice spunto investigativo, ma come una prova decisiva nei confronti dell’imputato».
Ci sono però anche elementi di fatto che portano in questa direzione. A partire «dalla constatazione del passaggio dell’auto utilizzata da Franceschi sulla strada che collega Calci alla sommità del Monte Serra in un orario che risulta altamente significativo».
Quell’arco di tempo, infatti – secondo quanto scrivono i giudici nella motivazione – «è chiaramente concordante con l’ipotesi di un innesco a tempo»: il rogo sarebbe infatti fatto scoppiare con l’utilizzo di alcuni zampironi dei quali non è rimasta traccia.
Inoltre, «in quell’arco di tempo il telefono del Franceschi era acceso ma era stato lasciato a lungo inutilizzato»: il telefono ha un ruolo importante nella vicenda, visto che ha permesso di ricostruire i movimenti di Franceschi in quel 24 settembre, tutti nella zona del Monte Serra.
Infine, sono proprio le tracce lasciate dal cellulare che, secondo i giudici, smentiscono «le dichiarazioni rese da Franceschi in dibattimento in merito al fatto di aver completamente recuperato il ricordo di quanto era avvenuto il 24 settembre 2018 e di poter dire che dal momento del rientro a casa, alle 19, fino alle 21,15 circa, era rimasto sempre nella sua abitazione di Calci». È, insomma, la questione della ritrattazione fatta da Franceschi durante il processo, che secondo la Corte d’Appello è stata «nettamente smentita».
Detto tutto questo, perché allora la diminuzione di due anni di pena? Come anticipato, si tratta di una questione formale. In primo grado a Franceschi erano stati contestati due reati, incendio boschivo pluriaggravato (il più grave) e disastro ambientale. Secondo quanto previsto dal codice penale, si trattava di un concorso formale, che prevede un aumento di pena a partire da quella del reato più grave. Dunque i 10 anni dell’incendio boschivo erano diventati 12. Secondo la Corte d’Appello, tuttavia, il reato di disastro ambientale è già “assorbito” da quello di incendio boschivo e, dunque, l’aumento di pena di due anni deve cadere.
Ora i difensori di Franceschi, sulla base delle motivazioni, potranno decidere di ricorrere contro la sentenza davanti alla Corte di Cassazione.