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Eccidio del Padule di Fucecchio, i sopravvissuti: «I mitra dei nazisti sono ancora nei nostri incubi»

Eccidio del Padule di Fucecchio, i sopravvissuti: «I mitra dei nazisti sono ancora nei nostri incubi»

Le testimonianze di Quinto Malucchi, Tosca Lepori e Vittoria Tognozzi a ottant’anni dalla strage del 23 agosto 1944, che fece 174 vittime civili

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Valdinievole Sono trascorsi 80 anni da quel terribile 23 agosto 1944, quando le loro vite furono segnate per sempre dall'eccidio del Padule di Fucecchio. Un dolore mai sparito, come se la strage fosse avvenuta ieri. Oggi i pochi sopravvissuti a quella carneficina sono tutti lucidi ottantenni che, nel tracciare il bilancio della loro vita, non possono prescindere da quel fatidico giorno.
Quinto Malucchi, Tosca Lepori e Vittoria Tognozzi sono nomi che, solo per un caso fortuito, non troviamo scritti nel monumento ai caduti di Castelmartini, alle porte di Larciano, memoria di quell'orribile strage nazifascista. L'essere sopravvissuti a quella barbarie li obbliga al dovere della memoria che, da anni, assolvono narrando alle scolaresche quanto loro avvenuto. Quinto Malucchi aveva appena 7 anni. Viveva in una grande casa colonica in via del Fossetto, a Cintolese. Suo padre Gino, classe 1899, e sua mamma Emma di figli ne avevano messi al mondo sei. All'inizio dell'estate del '44 i tedeschi, che fino ad allora erano rimasti ai margini del Padule, vi fecero la loro comparsa. La linea del fronte si stava infatti avvicinando.

«In molte aie di contadini furono piazzate delle mitragliatrici – ricorda Malucchi – ma i militari non avevano un atteggiamento ostile con la gente del posto. Ricordo addirittura che un giovane soldato diceva sempre che “lui volere sposare Marina”, la mia sorella più grande». In quel terribile giorno di fine estate però l'idillio si ruppe. Le truppe tedesche iniziarono un'incisiva azione di rastrellamento alla ricerca di partigiani. Se i suggeritori e anche alcuni esecutori siano stati italiani, gente del posto, è vicenda spinosa. Una raffica di mitra stroncò la vita del babbo di Quinto, Gino, che si era nascosto in una buca in cui erano stati nascosti due maialini per sottrarli all'appetito degli invasori. Come ultimo spregio, solo Gino cadde sotto i proiettili mentre i maialini si salvarono. Da allora le redini della famiglia furono prese da mamma Emma, che riuscì a crescere i suoi figli seppur fra mille difficoltà. «Non ci mancava da mangiare – afferma Malucchi – ma avevamo perso nostro padre, oltre che tanti altri parenti, in casa l'atmosfera era sempre triste». Diventato grande, Quinto divenne operaio calzaturiero e poi caldaista. Fu anche protagonista delle lotte sindacali in Valdinievole partecipando, nel 1973, all'occupazione della cartotecnica Biagiotti. Conobbe Vittoria, di Buggiano, si sposarono. Nacquero Marco, Andrea e Sauro, poi sei nipoti. «Ho voluto costruire una famiglia grande e solida – dice ancora – anche per riaffermare che la vita vince sempre».

È riuscita a vivere un'esistenza serena, seppur turbata da quanto vide in quei terribili giorni, anche Tosca Lepori, oggi 86enne che gira di scuola in scuola per tenere accesa la fiaccola della memoria. A Tosca la barbarie nazista strappò la madre, Dina Romani, falciata insieme al suo fratellino da una raffica di mitra, sua zia Giuliana di 17 anni, i nonni Maria Pia e Giulio e lo zio Raffaello. Lei si salvò perché sua mamma, un attimo prima dello sparo mortale, l'aveva spinta in un albero cavo, sottraendola allo sguardo dei carnefici. «Mia madre morì per amore – dice Tosca Lepori – ogni giorno andava a portare da mangiare a mio padre che era nascosto in Padule per sfuggire ai rastrellamenti. Ho sempre davanti agli occhi l'immagine di mia madre con la testa perforata dal proiettile che l'ha uccisa. Di mio fratello Gino, di soli 18 mesi, ricordo solo un ammasso di carne informe». A guerra finita, il padre di Tosca si risposò costruendosi un'altra famiglia. Tosca fece altrettanto, sposando Marino Tuci. «Mi sono sposata molto giovane e dopo aver lavorato molto tempo in campagna, trovai occupazione alle officine meccaniche Gheri. In seguito alla nascita dei figli, dovetti adattarmi al lavoro a domicilio, cucendo e assemblando le calzature delle più importanti fabbriche di Monsummano. La vita è stata dura con me ma ho sempre ribattuto colo su colpo».

Il matrimonio e la nascita delle figlie hanno consentito anche a Vittoria Tognozzi di voltare pagina dopo quel tragico 23 agosto 1944. Dalla sua unione con Marino Ili sono nati Annalisa e Annamaria. Da bambina, Vittoria Tognozzi abitava in un grande casolare all’Uggia, dove i suoi genitori lavoravano la terra. È lì che, sin da piccola, ha imparato a intrecciare il sarello, l'erba palustre da cui, una volta essiccata, si possono impagliare sedie e ceste. La follia di quei giorni l'ha privata per sempre dell'amore di sua madre Annamaria, ventinovenne, e di due sorelline, Vanda e Silvana. Come molte delle donne morte quel giorno, anche la mamma di Vittoria fu raggiunta dal piombo nazista mentre si stava recando a portare da mangiare al marito nascosto. A guerra finita furono i nonni Iacopo Tognozzi e Ottavina Ciampi, insieme alla zia Novarina, a farla diventare grande. Suo padre Emilio si risposò. «Non è stato facile – spiega – per moltissimi anni ho avuto il sonno disturbato dai peggiori incubi. Mi immaginavo che i nazisti fossero tornati e che volessero ucciderci». Vittoria Tognozzi non ha mai voluto abbandonare la terra e di questa decisione ne va fiera: «Vivere in campagna, al contatto con la natura, ha contribuito a tenere sotto controllo le ferite del mio animo. Non ho dovuto adattarmi ad altri ritmi di vita e oggi vivo serena in compagnia della mia famiglia». Alla domanda se, negli anni, ha sentito vicine le istituzioni, l'anziana donna afferma: «Ci hanno completamente dimenticati, ne è la riprova il mancato risarcimento in tutti questi anni». «Non solo siamo stati dimenticati dallo Stato – aggiunge Tosca Lepori – anche i Comuni si sono disinteressati a noi per decenni. Quando avevo i figli piccoli e andai in Comune a Monsummano a chiedere se esistesse la possibilità di un impiego, mi fu detto che non potevano assumermi perché non avevo nessun titolo di studio». Così Quinto Malucchi: «I soldi sarebbero stati necessari ottant’anni fa, quando le famiglie brancolavano nelle ristrettezze. Oggi è una questione di principio, che però resta per noi irrinunciabile». l

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