«La mia Harlem, povera e ricchissima. E quel gancio cielo inventato per caso»
Kareem Abdul Jabbar e l’America nera: in un libro le parole della leggenda della Nba, testimone di un’epoca
Lui, che ha cambiato il modo di guardare il canestro, che dall’alto di un torreggiante 2,18 giocava con la leggiadria visionaria di un piccolo, lui che ha vinto tutto, che ha inventato lo sky hook, il gancio cielo che la vocetta di Dan Peterson sdoganò nelle nostre case di innamorati pazzi di una galassia, l’Nba, lontana anni luce, lui – Kareem Abdul Jabbar nato Lewis Alcindor – aveva un sogno: fare il professore di storia. Tramandare alle giovani generazioni ciò che l’America nera è stata, è diventata, come e quanto ha sofferto, quante ingiustizie hanno segnato la sua vicenda, quante sopraffazioni, piccoli e grandi, pubbliche e private.
Kareem Abdul Jabbar è stato «il» pivot. Eppure nella sua ultima avventura letteraria, Sulle spalle dei giganti, in Italia con add editore, della sua pallacanestro non parla quasi mai. Dei suoi 38mila punti (miglior marcatore ogni epoca), degli anelli Nba, della classe, del tocco che ha stregato il mondo. Niente. Anzi, due soli accenni. La nascita, casuale del gancio cielo («un giorno, avevo 9 anni, ero intrappolato dalla difesa ed avevo dovuto fermarmi, avendo fermato il palleggio: lanciai un’occhiata al canestro alle mie spalle, mi voltai e tirai il mio primo gancio. Lo sbagliai, ma quella sensazione di potere e di controllo mi caricò di energia») e un episodio che condizionò la sua vita, sportiva e non.
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Un suo allenatore alla Power Memorial, Jack Donahue, nel corso di una partita si rivolge a lui e dice: «Ehi tu. Entri in campo e non ti dai da fare. Non ti muovi. Non fai niente. Ti comporti proprio come un nigger». Già, nigger, negro. Per il giovane Lewis è un fulmine a ciel sereno, qualcosa che lo spinge a giocare sempre meglio “in faccia” a quel coach, certo, ma anche a trascorrere pomeriggi interi nella biblioteca della scuola a caccia di frammenti di storia della comunità nera americana, dei suoi leader spirituali, della sua musica, della sua letteratura.
«Donahue non pensava di aver agito da razzista – scrive Jabbar – solo da motivatore. In cuor suo gli importava di me, ma il suo cervello avrebbe potuto prevedere la mia reazione. E quell’estate feci una cosa che cambiò la mia vita: mi iscrissi alla Youth Harlem Action Project, un programma per tenere lontani i ragazzi dalle strade insegnando loro qualcosa del retaggio culturale che si portavano dietro». Così il giovane Alcindor, non ancora Jabbar, già conteso dalle migliori università americane (sarebbe finito a Ucla, dove avrebbe incontrato John Wooden, il coach del suo destino), iniziò il suo viaggio nelle radici nere di Harlem e dell’America, un viaggio che rappresenta lo spirito del libro.
IL BASKET DEL RENS
Jabbar parla pochissimo, quasi niente di sè ma molto di un manipolo di uomini che ha fatto la storia del basket Usa: i New York Renaissance Big Five, meglio conosciuti come Rens. Forti, fortissimi ma soprattutto i primi a mettere in discussione la supremazia bianca della pallacanestro. Era una sorta di circo ambulante che girava tutti i luoghi più ameni del Paese, con tournée che duravano anche un anno: vincevano quasi sempre. Kareem racconta di quel 28 marzo 1939 quando gli otto ragazzi neri di Harlem si presentarono al Coliseum di Chicago per la finale del primo campionato del mondo di basket professionistico di ogni epoca.
Non era una semplice partita, era l’America bianca contro quella nera, contro quegli Oshkosh All Stars che erano il simbolo del Midwest. Finì 34-25 per i Rens, con sugli scudi “Pop” Gates, una sorta di Michael Jordan ante litteram. Per capire l’atmosfera del tempo, ai Rens venne donato un giubbino con la scritta “Colored World Champions” dal quale John Isaacs, uno di quei campioni, tagliò via la parola “colored”. I Rens, che in quegli anni sfidavano anche il primo nucleo degli Harlem Globetrotters, scomparvero nel giro di qualche anno ma il loro mito sopravvive ad Harlem.
I GIGANTI
Sulle spalle dei giganti. Quassù sale Kareem per raccontarci quell’America, quelle lotte, quegli uomini. Come Martin Luther King, che il giovanissimo Jabbar, nell’estate 1964, incontrò nelle inedite vesti di giornalista del settimanale del progetto giovani di Harlem. «Il registratore stretto nella mano, alla fine trovai il coraggio di fare una domanda: pensa che questo programma sia utile per la gente di Harlem? Mi rispose che senza dubbio avrebbe avuto successo. Capii ciò che avrei dovuto fare della mia vita». Giganti. Che hanno ispirato la “rinascita” di Harlem, da ghetto nero a fucina di menti, talenti, ispirazioni. Come Booker T. Washington, l’educatore che a cavallo tra Otto e ’900 diventò portavoce della comunità nera, riferimento anche per il Congresso. Come W.E.B. Du Bois, uno dei primi neri laureati ad Harvard che lo sostituì come leader. E poi Marcus Garvey e il movimento Back-To-Africa, che riscopriva le radici del popolo black.
LA MUSICA E IL TEATRO
Giganti. Quelli del jazz, che ad Harlem diventò una religione. Da Al Jolson, una delle prime stelle di Broadway, a Louis Armstrong, quelli del ragtime (Scott Joplin su tutti), quelli del blues. Ma Harlem fu anche teatro: autori come James Weldon Johnson, Jessie Fauset, Claude Mc Kay hanno influenzato profondamente Jabbar, che con la vena di approfondimento storico, nel libro, ne traccia la vita, le opere e soprattutto l’influenza che hanno avuto su Harlem e sulla comunità nera. Persone, anzi giganti che hanno contribuito in maniera decisiva a dare una spallata decisa, violenta alla discriminazione razziale. Un gigante sulle spalle dei giganti.
Atleta e scrittore. la scheda
Ferdinand Lewis Alcindor. Kareem Abdul Jabbar, classe 1947, è stato uno dei più grandi giocatori di basket della storia. Detiene tuttora il record di 38mila punti realizzati nell’Nba, con i Los Angeles Lakers ha vinto tutto. Dopo il suo ritiro è diventata una voce autorevole della politica, della libertà e dell’integrazione dei neri americani. Ha scritto diversi saggi e due romanzi: nel 2016 il presidente Barack Obama lo ha insignito della Presidential medal of Freedom. Ha scritto “Sulle spalle dei giganti” insieme allo scrittore Raymond Obstfeld.