Il delitto
Moby Prince, 34 anni senza verità: «Oggi il dolore è ancora più forte»
Luchino Chessa, figlio del comandante, per l’anniversario del disastro: «Chi sa parli, lo faccia per le 140 vittime»
LIVORNO. «Il dolore non mi abbandona mai. È sempre con me, in ogni momento. Anzi, dopo 34 anni è ancora più forte perché la verità su quella notte non è stata raccontata e nessuno ha pagato per gli errori commessi. Non mi stancherò mai di chiedere giustizia e di dire: chi sa parli. Non è troppo tardi». La voce di Luchino Chessa si incrina un attimo, mentre il nastro dei ricordi si riavvolge fino a quella maledetta notte del 10 aprile 1991 quando si consumò la più grande tragedia della marineria italiana.
All’epoca aveva 31 anni e lui e suo fratello Angelo, prematuramente scomparso nel giugno 2022, nel disastro del Moby Prince hanno perso entrambi i genitori: il padre Ugo, il comandante della nave, e la madre Maria Giulia Ghezzani, originaria di Vicopisano (Pisa). A oggi, la certezza è che alle 22,25 di 34 anni fa, il traghetto Moby Prince della Navarma entrò in collisione con l’Agip Abruzzo (ancorata in una zona vietata), petroliera della Snam, a 2,7 miglia dalla costa livornese. Poi l’inferno: le fiamme, la paura, l’attesa, la morte. Il bilancio: 140 vittime, un solo superstite.
Luchino, presidente dell’associazione “10 aprile - Familiari delle vittime del Moby Prince”, come ha vissuto gli ultimi 34 anni?
«Sono già passati 34 anni, più della metà della mia vita ormai. È incredibile se penso che abbiamo vissuto per tutto questo tempo così, senza sapere cosa è successo davvero. Non se ne va il dolore e neppure la rabbia, vedendo che è stato fatto di tutto per nascondere la verità. È questa la cosa che fa più male».
Qual è l’ultimo ricordo felice che conserva dei suoi genitori?
«Il 31 marzo 1991, era il giorno di Pasqua, e mio padre era a pranzo con noi. Lui è sempre stato un uomo molto severo e rigoroso, ma era una persona buona. Quando si è piccoli tendiamo ad avere un rapporto conflittuale con i genitori, ma poi si è trasformato in un rapporto importante, profondo. Eravamo una famiglia felice».
Poi tutto è finito, all’improvviso. Il disastro del Moby Prince le ha portato via una parte di lei.
«Sì. Mio padre era il comandante, ma fu un caso che mia madre si trovasse a bordo. È stata sfortunata: lei raramente lo raggiungeva. Lo fece quella volta. Prese il volo da Cagliari per Olbia e da lì si imbarcò con mio padre».
Come seppe della tragedia?
«Ho appreso del disastro dai giornali, la mattina seguente. Lessi di un traghetto in fiamme nel porto di Livorno e non è che ce ne fossero poi molti di traghetti in quel periodo. Non ho avuto dubbi, quindi, che si trattasse del Moby Prince. Nessuno, però, mi aveva avvertito, e questa è la cosa drammatica».
Prima diceva che prova anche rabbia oltre al dolore...
«Sì, rabbia per quello che è successo. Mentre papà è rimasto in plancia di comando ed è stato avvolto dalle fiamme, morendo poco dopo, mamma era con gli altri nel salone di raccolta in attesa che arrivassero i soccorsi senza, però, che nessuno sia mai arrivato a portarli via da quell’inferno. Erano tutti lì, pronti per essere salvati, con i giubbotti addosso. E invece sono morti, tutti quanti».
La terza commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Pietro Pittalis, ha rimarcato nei giorni scorsi, incontrando i capigruppo in Consiglio comunale, l’esistenza di una terza nave che costrinse suo padre, il comandante Ugo Chessa, a una virata improvvisa che portò alla collisione tra il traghetto della compagnia Navarma e l'Agip Abruzzo. È la strada giusta per accertare la verità?
«L’esistenza di una terza nave l’avevamo tirata fuori anche noi ai tempi delle prime indagini e del primo processo. Già se ne parlava all’epoca, poi la verità processuale è stata costruita in modo diverso. È stato fatto un lavoro di depistaggio, fin dalle prime ore dopo la collisione, per nascondere la verità, inventando una verità semplice come quella della nebbia e del traghetto che viaggia veloce e che prende in pieno la petroliera perché non l’ha vista. Non è andata così».
Cos’è che oggi vi fa ancora male?
«Il dolo. È stato fatto dire al mozzo (Alessio Bertrand, ndr), l’unico sopravvissuto al naufragio, che tutti gli altri sul traghetto erano morti. Un aspetto inquietante che fa pensare che sia stato costruito tutto ad arte fin dal primo momento perché non si scoprisse cosa è successo quella notte».
Cosa vi augurate dopo 34 anni?
«Di chiudere questo percorso una volta per tutte e conoscere una verità che sia appagante per i familiari che hanno perso i loro cari in modo ingiusto, ma mancano ancora dei tasselli. La giustizia, però, non so se l’avremo mai. Giustizia significa condannare delle persone che hanno fatto qualcosa di male».
Cosa è cambiato in questi 34 anni?
«Le istituzioni e la stampa ci sono vicine e questo è importante, lo dico da cittadino: mi sento parte di un Paese che sta cercando di cambiare. Quello che ci lascia perplessi, però, è questa distonia: gli organi dello Stato ci appoggiano, ma la giustizia va nella direzione opposta. Ma io, in ogni caso, continuo ad avere fiducia nella giustizia. Nonostante tutto quello che abbiamo subito, le batoste di ogni tipo e le chiusure tombali, sono sempre fiducioso. Continuerò a lottare anche per mio fratello Angelo: lo sento sempre con me, soprattutto in questi momenti».l
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