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Vicarello e quella rapina in gioielleria che ha fatto la storia: «Ma babbo non ne parlò mai»

di Claudia Guarino

	Una foto scattata davanti alla gioielleria ed Enrico Meucci, figlio di Lido Meucci
Una foto scattata davanti alla gioielleria ed Enrico Meucci, figlio di Lido Meucci

Nel 1990 il colpo alla gioielleria Meucci, gli ostaggi e l’assedio. Le tecniche di mediazione utilizzate in quelle ore studiate anche dall’Fbi

04 febbraio 2024
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LIVORNO. Di rapine ne avevano già subite abbastanza. Tanto che ingegnarsi per cercare una soluzione era diventata quasi una necessità. Pensa e ripensa, ecco la soluzione: un pulsante per chiudere da remoto gli accessi alla gioielleria. Ed Enrico Meucci l’ha premuto, alle 12, 43 del 26 settembre di 33 anni fa. Solo che dentro al negozio, oltre ai rapinatori, c’erano anche suo padre Lido Meucci, allora 65enne e l’amico di lui Sovrero Lisi, 62 anni. Alla fine si risolse tutto nel migliore dei modi. Prima fu rilasciato Lisi, che aveva problemi di salute. Poi i rapinatori uscirono. Ma ci vollero tre giorni di mediazione. E la via della piccola frazione si riempì di poliziotti, avvocati, magistrati e giornalisti. Di passanti e curiosi. E quella alla gioielleria di Vicarello diventò una delle rapine più lunghe e più mediatiche della storia italiana. «Io all’epoca avevo quarant’anni – racconta Enrico Meucci, figlio del compianto gioielliere Lido –. Ero al piano di sopra, nel laboratorio, e quando ho visto ciò che stava accadendo ho chiuso tutti dentro. Non sapevo come sarebbe andata, non sapevo che cosa sarebbe successo a mio padre, ma ho chiuso tutti dentro. Poi, a cose fatte, babbo era tranquillo, anche se non ha mai voluto parlare di ciò che successe lì dentro». Meucci siede nella sala comunale delle Colonne, a poca distanza dall’edificio in cui negli anni Novanta c’era la gioielleria di Lido, e ripercorre la storia insieme ai presenti. Ci sono la giornalista del Giornale Manila Alfano, autrice del libro “La lunga notte di Vicarello” che racconta la storia della rapina e che è stato presentato ieri, il giornalista del Giornale Stefano Zurlo, il procuratore reggente di Livorno Massimo Mannucci, il direttore editoriale del Tirreno Luciano Tancredi e Stefano Filucchi, all’epoca uno degli investigatori della polizia di Stato che partecipò alla fase di mediazione e adesso azionista del Gruppo Sae, che edita questo giornale.

Il ruolo della mediazione

Una storia, quella della rapina di Vicarello, che per durata del sequestro e tecniche di mediazione utilizzate, come spiega Filucchi, è diventata anche un caso di studio per l’Fbi. «È stato un episodio importante dal punto di vista criminologico ed è diventato un caso di scuola relativo alla negoziazione. Fondamentale, nella buona riuscita della vicenda, è stato il lavoro di squadra. Negoziavamo tutti insieme». Forze dell’ordine e magistrati «e fu essenziale anche il ruolo degli avvocati dei due rapinatori: i legali D’Urso e Uccelli. Fondamentale, in casi come questi, è riuscire a entrare in contatto empatico con i rapinatori ponendosi sul loro piano, mettendoli al centro della scena e, nello stesso tempo, facendo loro sentire che non sei tu, mediatore, quello che direttamente decide». Come a dire: mi stai chiedendo, per esempio, un elicottero e io, essendo tuo amico, farò il possibile per fartelo avere. Tu però stai tranquillo. E magari rilascia un ostaggio. Coi rapinatori, insomma, ci fu un contatto costante. «Lì dentro c’era un a situazione di frenesia emotiva e di stasi fisica – dice Mannucci – . E fu fondamentale il ruolo dei due avvocati difensori, che giocarono anche sulla flessibilità della pena».

Il permesso premio

Tutti e due i rapinatori erano già stati condannati (uno a 21 e l’altro a 19 anni) per omicidio e in carcere avevano pianificato il colpo per poi tentarlo durante un permesso premio. Scelsero la gioielleria Meucci di Vicarello perché avevano in qualche modo saputo che aveva come clienti vari frequentatori di Camp Darby (dunque doveva essere particolarmente rifornita) e perché la strada costituiva una facile via di fuga.

Tra silenzio e frenesia

I due entrano nel negozio poco prima delle 12, 45 e uno colpisce il gioielliere alla testa. «Ho visto cosa è successo e ho chiuso tutto», racconta Enrico Meucci. E così ebbero inizio i tre giorni più lunghi della storia di Vicarello e non solo. Fuori dalla gioielleria furono schierati duecento uomini, tra polizia e carabinieri, con tanto di gruppi specializzati. C’erano – per citarne solo alcuni – il comandante della squadra Mobile Luigi Canu, il procuratore Antonino Costanzo, il questore Giuseppe Ioele e i magistrati Paolo Cardi e Luigi De Franco. «Fuori – ricorda Alfano – c’era una piazza di persone per quella che è stata una tragedia sfiorata che, grazie alla mediazione, è finita bene». «Quando mandammo lì fuori la mamma di uno dei rapinatori e la compagna dell’altro, i due capirono di non essere più nell’anonimato – racconta Filucchi – avevano capito di essere stati identificati e questo fu per loro uno choc». Nella gioielleria le ore scorrevano in uno spazio silenzioso, piccolo e senza uscite. Di tanto in tanto squillava il telefono. «Pensate di arrendervi?», chiese il giornalista del Tirreno che riuscì a mettersi in contatto coi rapinatori. «No, è da escludere». E il gioielliere: «Stiamo qui, siamo calmi e tranquilli». Fuori, nel frattempo, dominava la frenesia. «Io – spiega Enrico Meucci – ero in laboratorio coi Gis (gruppo d’intervento speciale dei carabinieri, ndr) e i Nocs (nucleo centrale operativo della polizia). Non c’era tempo di stare a pensare. Non c’era tempo di fare niente. Sono stati tre giorni e mezzo in cui siamo riusciti a stento a mangiare». Nel frattempo la cognata di Lido Meucci nella sua casa preparava il pranzo per ostaggi e rapinatori: «Prima lo assaggiavano gli ostaggi, così gli altri verificavano che nei piatti non ci fosse, per esempio, del sonnifero». «Com’è la situazione lì», chiede, ancora, il cronista del Tirreno ai rapinatori asserragliati nella gioielleria. «Sempre uguale, fino a che non ci portano la macchina». «Ma ve ne andrete da soli o con gli ostaggi?», «Ci porteremo dietro gli ostaggi, mica hanno fatto la ruggine». Poi, il signor Lido Meucci: «Non ci hanno picchiato, né maltrattato».

La risoluzione

Pian piano i rapinatori cominciano a cedere. Prima rilasciano Sovrero, poi escono. E pare che avessero chiesto di farlo in diretta tv . «Temevano – racconta Filucchi – che potesse succedere loro qualcosa». Il gioielliere, peraltro, disse che i due «erano ragazzi d’oro». Si può parlare di sindrome di Stoccolma, cioè di un attaccamento positivo ai propri sequestratori, come ha raccontato la giornalista Manila Alfano nel suo libro tratteggiando le relazioni psicologiche tra ostaggi e rapinatori. Del resto passando tante ore a stretto contatto emerge anche il lato umano. «Hanno ammesso di aver sbagliato e chiedono soltanto di poter abbracciare i loro familiari e di non tornare nel carcere di San Gimignano», disse all’epoca il procuratore. «Babbo non volle mai raccontare niente – spiega Enrico Meucci –. Ha sempre cercato di non riaprire il discorso. Non ne ha mai parlato e noi non abbiamo insistito. Per capire che cosa significa e che tracce lascia un’esperienza del genere bisognerebbe viverla».l

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