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Lo studio

Maternità e lavoro, Italia in coda: la scelta comporta rinunce pesanti. Le 3 ragioni della “child penalty”

di Giuseppe Centore
Maternità e lavoro, Italia in coda: la scelta comporta rinunce pesanti. Le 3 ragioni della “child penalty”

Dopo il parto il crollo del reddito per le neo-mamme è immediato ed è difficile risalire

12 maggio 2024
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Gli economisti la definiscono “child penalty” e solo l’espressione fa capire la gravità del concetto. Come può la maternità essere una penalizzazione per le lavoratrici? E invece è proprio così. L’Italia, seguita non a caso da Grecia e Spagna è al primo posto in Europa in questa originale classifica. La differenza di reddito tra le lavoratrici che scelgono di diventare mamme e quelle che non compiono questa scelta è stata quantificata in dettaglio in uno studio dei ricercatori Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, pubblicato nel 2023. I dati dimostrano che il confronto del reddito da lavoro dipendente delle neo-mamme e di lavoratrici a loro simili – per età, competenze e salari – è impressionante nei due anni successivi alla nascita. Calo da cui poi non ci si riprende mai del tutto. Sei mesi prima del parto il calo del reddito è del 50 per cento, che cala ulteriormente nel primo anno, per poi risalire al secondo anno al 25/30 per cento. E da questo dato non ci si riprende per i primi 15 anni di vita del figlio. La riduzione di almeno un quarto del reddito è costante. Il confronto con le donne senza figli è impietoso. Dopo 15 anni dal parto i salari annuali delle mamme crescono del 52 per cento in meno rispetto a quelli delle loro simili ma senza figli: quasi un quarto di questa riduzione è spiegato dal maggiore utilizzo di contratti part-time, che letteralmente esplodono per le mamme con figli.

Il part-time aumenta di 20 punti percentuali nei primi 2-3 anni dal parto, e arriva a superare i 30 punti in più a 15 anni dalla nascita. Un altro dato sorprendente è che il part-time non cala al crescere dell’età del figlio. Nella fascia 7-15 anni la percentuale di donne che accedono alla riduzione concordata delle ore di lavoro è costante, sempre rispetto all’anno precedente la nascita del figlio.

Secondo lo studio dei due ricercatori, Alessandra Casarico, docente della Bocconi, e Salvatore Lattanzio, analista di Banca d’Italia, è possibile anche indagare sulla classificazione delle donne con e senza figli in diversi tipi di aziende. Il risultato finale della ricerca è che le madri lavorano in aziende con produttività, vendite, capitale e salari più bassi dopo il parto. Naturalmente il divario con le donne non madri è ancora più elevato in presenza di madri giovani, a basso salario e per quelle che prendono congedi più lunghi. È ancora maggiore infine nelle piccole imprese con retribuzioni meno generose e concorrenti peggiori, e nelle regioni più conservatrici in termini di genere.

Anche Francesca Carta, senior economist alla direzione generale per l’economia, statistiche e ricerche di Bankitalia, ha analizzato il fenomeno con un approccio diacronico «perché la relazione tra occupazione femminile e fecondità è cambiata nel tempo». Dai grafici costruiti, si nota un percorso “a gobba” in questo secolo, con un rapporto tra occupazione e maternità positivo e ascendente sino al 2004 e poi con una progressiva discesa dal 2011, segno anche esso della crisi. Lo sguardo al secolo precedente segna invece valori negativi, per assurdo più profondi a metà degli anni novanta che negli anni ’50 quando il boom economico ha avvicinato le donne mamme al mercato del lavoro.

La differenza con la Germania è invece netta. Lì le donne sposate e le single hanno lo stesso tasso di occupazione, a seconda dell’età. Qui no: le donne sposate solo all’inizio della carriera hanno lo stesso tasso di occupazione, poi rimangono indietro. “Merito”, si fa per dire, dell’essere diventate madri, che rimane la «principale spiegazione dei restanti divari di genere, ovunque e in maniera persistente».

Tre sono le principali ragioni della “child penalty” nel nostro paese: dopo la nascita le madri prediligono altri aspetti al salario (vicinanza a casa, flessibilità); la nostra cultura e le norme sociali continuano ad attribuire il peso dell’accudimento solo sulle donne; rimane significativa una carenza di politiche di conciliazione vita-lavoro. Dallo studio emergono tre elementi, per certi versi inaspettati. I congedi parentali favoriscono l’occupazione materna, se rimangono sotto l’anno. In caso contrario possono produrre un effetto perverso. I congedi di paternità invece sono più efficaci in contesti tradizionali e di bassa occupazione femminile. Infine i servizi per l’infanzia hanno effetti positivi ma in contesti di scarse alternative di cura, di bassa occupazione e di condizioni di domanda di lavoro favorevoli.

Tre le azioni possibili secondo la ricerca: espandere l’offerta di servizi per l’infanzia accessibili e di qualità e sostenere al contempo la domanda di lavoro femminile; incentivare l’uso dei congedi di paternità: più lungo quello obbligatorio o più generoso quello facoltativo rispetto alle madri: correggere alcune distorsioni nel sistema di tasse e trasferimenti. Punto delicato ma fattibile visto che prevederebbe, a parità di reddito da lavoro familiare, maggiorazioni per la presenza del secondo percettore di reddito e riconoscerebbe alla famiglia, e non ai singoli lavoratori i maggiori costi legati alla conciliazione. 
 

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