Il Tirreno

Versilia

L’omaggio di Israele a Gino Bartali, il salvatore degli ebrei

di Antonio Simeoli
Bartali impegnato in una tappa alpina del Giro
Bartali impegnato in una tappa alpina del Giro

La cerimonia in onore del grande campione. Dopo il Giardino dei Giusti, ora la cittadinanza onoraria. Adesso la sua storia merita di finire nei libri di scuola

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GERUSALEMME. Il figlio Andrea, andatosene troppo presto pochi mesi fa, aveva cominciato a girare l’Italia raccontando la storia del suo celebre padre.

E più girava lo Stivale e più si rendeva conto di una cosa: lui era andato a raccontare il papà, il mito del ciclismo, il vincitore di due Tour de France, l’uno a dieci anni di distanza dall’altro e con una guerra in mezzo, una cosa mostruosa, e in cambio invece riceveva decine, centinaia di storie del mito. Perché era la gente a raccontargliele. Era questo Gino Bartali.

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«Faceva il bene, ma non lo raccontava perché mi diceva sempre che il bene si fama non si dice», raccontava Bartali jr. Quaggiù in Israele, però, il Giro d’Italia è arrivato anche per quel campione capace, rischiando la pelle (e ci andò vicino molte volte ad andare al Creatore durante le sue azioni), di salvare, tra il settembre 1943 e la fine della guerra, quasi mille ebrei italiani dai campi di sterminio. Ieri, centrale evento di questa cinque giorni di Giro in Terra Santa, “Ginettaccio” è diventato cittadino onorario di Israele a cinque anni di distanza da un’altra onorificenza ricevuta: l’ingresso tra i Giusti della Nazione.

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Prendeva la sua bici Bartali da Firenze, si allenava fino ad Assisi, ore e ore di fatica con il vero obiettivo di trasportare i documenti contraffatti di centinaia di ebrei nel cambrone della sua Legnano. L’avessero fermato, controllato, gli avessero trovato quelle carte il suo destino sarebbe stato la fucilazione o un campo di sterminio. Nonostante quel nome pesante.

Ma faceva tanto altro Bartali. Come piombare fuori dalla stazione di Terontola, importante snodo ferroviario del centro Italia negli anni del conflitto, proprio al momento dell’arrivo dei convogli, distrarre i nazisti, molti dei quali suoi grandi tifosi e consentire a decine di persone di evitare i controlli. Chiudete gli occhi e immaginate la scena. Il campione appostato nel bar di un amico-tifoso a mangiare un panino col prosciutto. Poi il fischio dei treni. L’arrivo nel piazzale della stazione, l’ovazione della folla. Del resto, fino alla fine del secolo scorso, con una sua Golf Bianca impegnato nel seguire il Giro a oltre ottant’anni, non faceva sempre il pieno di folla Ginettaccio?

All’antivigilia della partenza del Giro Yad Vashem, il Museo della Shoah, ha voluto testimoniare ancora un volta la sua riconoscenza al campione.

«Il popolo e lo Stato di Israele ricorderanno sempre Gino Bartali campione nello sport, campione nella vita. Non lo dimenticheremo», ha detto Avner Shalev, presidente di Yad Vashem, consegnando il riconoscimento postumo alla nipote Gioia Bartali.

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Dal 2013 il ciclista è tra gli eroi che si opposero all’olocausto.

«Di lui – ha sussurrato tra le lacrime la nipote – voglio raccontare la sua grande umanità. Mio nonno era un uomo di pace».

«Un uomo straordinario che ha saputo andare contro una maggioranza che non lo ha sostenuto», ha aggiunto Shalev, ricordando l’Italia di quegli anni.

«Per me e per i miei parenti – ha detto Gioia Bartali con un pensiero anche a papà Andrea – è un momento molto speciale. Spesso ho immaginato la sua forza quando era impegnato, senza che la sua famiglia ne sapesse nulla, nel soccorso agli ebrei».

«Bartali – ha invece spiegato l’ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti – non ha rinunciato a fare del mondo un posto migliore. La più grande vittoria che ha portato a casa è stata quella contro il diavolo, contro l’oppressione, l’ingiustizia, la paura. Bartali ha salvato molte vite ebraiche condannate alla morte, e, anche peggio, alla deportazione, ai campi di sterminio, alle fiamme dei crematori».

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«Poteva sembrare burbero, ma chi lo ha conosciuto sa che era un uomo buono e giusto», ha chiosato il direttore del Giro d’Italia, Mauro Vegni.

«La sua corsa più grande non è stata nel ciclismo di cui era il maggiore campione della sua era – ha osservato Sylvan Adams grande patron dell’edizione del Giro in Israele e president e della “Cycling Academy” uno dei quattro team Professional invitati dall’organizzazione della corsa rosa – ma nella vita».

E in onore di Ginettaccio il team, che può contare tra gli otto partenti di domani sullo sprinter italiano Cristian Sbaragli, ha pedalato in segno di pace all’interno di Yad Vashem.

Temperatura torrida, perché ieri in Israele, dopo le piogge torrenziali della scorsa settimana, la colonnina del mercurio ha sfiorato i 38 gradi.

E così sarà per i prossimi giorni di gare. No, Ginettaccio non avrebbe detto la sua mitica frase: «È tutto sbagliato è tutto da rifare» perché, di fronte a questo caldo, sarebbe andato sicuramente più forte degli altri dopo aver sfidato in carriera torrenti gelati, salite impervie (e non asfaltate) e il controllo delle truppe naziste.

E non solo. Alla fine della guerra, mentre si trovava con alcuni colleghi a pedalare nell’Agro Pontino alla ricerca della forma perduta, fu avvicinato da alcuni partigiani che lo riconobbero e minacciarono di fucilarlo per aver vinto il Tour del 1938 ed essere stato osannato da Mussolini. Quando tutti sapevano che il regime gli aveva fatto perdere almeno un Giro e un Tour non perdonandogli la mancata iscrizione al partito fascista.

Riempie d’orgoglio arrivare qui con la corsa più bella del mondo in quello che è il paese più bello del mondo e trovare migliaia di persone commosse per quanto di buono seppe fare un italiano. In anni in cui l’Italia non esporta proprio il meglio di sé.

Un anno fa se ne andò, anche lui troppo presto, Oliviero Beha. Fece in tempo a scrivere il magnifico “Un cuore in fuga” (Piemme). Raccontò quello che Ginettaccio, il rivale-amico di Fausto Coppi, nella vita non ha mai raccontato. Quel bene Beha lo sintetizzo in maniera mirabile: «Al giorno d’oggi – disse il giornalista-scrittore, fiorentino come Gino – molti non fanno e si affrettano a raccontare quello che pensano di aver fatto. Bartali invece faceva e poi non raccontava nulla. Mai, salvo qualche accenno al figlio Andrea. Il campione è a tutti gli effetti un grande del Novecento, con la sua vita ci ha raccontato la genesi del bene». Parole sante.

«Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare», diceva Bartali. Il brontolone, il bastian contrario. «Quanto è attuale quella sua frase – continua Beha – una cruda lettura della realtà di allora e di quella d’oggi». In Israele, da dove domani partirà la corsa rosa, con il primo, prevedibile, duello sul filo dei secondi e dei cinquanta all’ora di media tra Tom Dumoulin e Chris Froome, Gino Bartali è un mito e il suo mito viene premiato, ricordato, esaltato. In Italia, almeno, e sarebbe il minimo, la sua storia dovrebbe finire nei libri di testo e insegnata nelle scuole.




 

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