Dall’Africa alla Normale di Pisa: «Un calvario diventare italiana»
Dottoressa di ricerca, la scrittrice Clementine Pacmogda si racconta
Cosa serve per "meritarsi" la cittadinanza? Mentre l’Italia dibatte se un alunno, finito il ciclo di studi nelle nostre scuole, possa dirsi o no "italiano", ecco la storia di Clementine Pacmogda, 46 anni, scrittrice e linguista originaria del Burkina Faso, per diversi anni "toscana". Il suo ciclo di studi, completato tra mille difficoltà in Africa, una dozzina di anni fa, è stato coronato in Italia con il massimo dei titoli riconosciuti, il dottorato di ricerca, in una delle istituzioni più prestigiose a livello nazionale e internazionale, la Scuola Normale Superiore di Pisa.
Eppure Clementine si è ritrovata protagonista di una storia tanto surreale, quanto fastidiosa al buonsenso, non solo in tema di cittadinanza - status ancora, evidentemente, non reclamabile sventolando titoli di studio - ma anche in materia di semplice riconoscimento delle competenze di una persona a vantaggio della società.
«Avevo vinto una borsa di studio per il conseguimento del dottorato in Linguistica alla Normale di Pisa e sono arrivata in Italia a ottobre 2008. Ero già "vecchia", 29-30 anni. Ma nei Paesi poveri tutto va a rilento», sorride Pacmogda. In tasca ha una laurea in Linguistica conseguita all’università di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Nel cuore, il sogno di affrancarsi da sacrifici e miseria con gli studi.A giugno 2012, discute la tesi e si affaccia così alla sua nuova vita.
«Finiti gli studi, ho cercato subito lavoro, anche perché avevo bisogno del permesso di soggiorno», dice. Ma non solo. Clementine scalpita per mettersi a disposizione della comunità. E, forte del suo curriculum, decide di proporsi come insegnante di francese, sua lingua madre, nella scuola pubblica. Qui la prima doccia fredda. «All’ufficio scolastico mi dissero che non essendo cittadina europea non potevo insegnare nella scuola pubblica. Lo stesso per altri concorsi».
Non va meglio per la cittadinanza. Sempre nel 2012 si sposa con Dario Fasano, medico di origini pugliesi. Ma non sono più i tempi della cittadinanza automatica. «Ho dovuto aspettare due anni solo per presentare domanda. E poi aspettare l’esito dell’istruttoria», dice. Che non è scontato. Clementine si ritrova così con il più alto titolo di studio possibile, ma senza poter accedere a concorsi pubblici. E con un regolare matrimonio, ma senza cittadinanza. Per il primo problema, a quanto pare, l’ostacolo è la laurea. Perché nonostante lei avesse preso un dottorato in Italia - supportato da borsa di studio - per far "funzionare" la laurea africana in Italia, questa doveva passare la procedura di equipollenza al titolo italiano.
«Assurdo. Per accedere al dottorato serve un titolo di studio valido, la laurea. Io il dottorato ce lo avevo, ma la laurea non me la riconoscevano più. Il mio professore, Pier Marco Bertinetto, mi diceva: "Se non ti riconoscono la laurea, allora ti devono ritirare il dottorato"».E sì che, anni addietro, in Burkina Faso, al momento di perfezionare l’iscrizione alla Normale Clementine aveva fatto i salti mortali per presentare il suo titolo. «Non si ha idea dei soldi, del tempo e dell’ansia che ho speso per farmi riconoscere la laurea. In Burkina non c’è l’ambasciata italiana e dovetti rivolgermi in Costa d’Avorio. Ma c’è un solo treno a settimana e ci mette tre giorni per arrivare».
Eppure, paradossalmente, la burocrazia italiana sembra ancora più farraginosa di quel pachidermico treno africano. Per l’equipollenza, spiega Clementine, «devi portare la documentazione e i programmi, e nei Paesi in via di sviluppo non sempre il materiale è reperibile. La conservazione elettronica è recente, devi cercare i professori ma magari sono morti o non raggiungibili. È stato un periodo di grande depressione. Tutti mi dicevano che avrei fatto prima a iscrivermi di nuovo al primo anno».
Ci mette due anni per finire la procedura. Nel frattempo nasce la figlia, Eufrasia. E le cose cominciano a cambiare.La cittadinanza arriva nel 2015. E finalmente, quell’istruzione conseguita con tanta fatica sembra aiutarla. «Credo che nel mio caso la cittadinanza sia stata velocizzata dal titolo di studio. Devo dire che la Normale mi ha sostenuta molto, sono stata fortunata. Quello è un mondo di accoglienza». Come dev’essere. Però, ritornando al passato, il dolore riaffiora. «C’è stato un momento in cui mi sentivo depressa, in gabbia. La gente mi diceva: "Tanto hai tuo marito". Ma non era quello che volevo. La mia è stata una vita di miseria. Volevo un’istruzione, voglio essere utile alla società con la mia formazione, non perché ho un marito. Era assurdo, e crudele. Se fossi stata sola, o con una famiglia africana, non ci sarei arrivata. Per fortuna ho avuto il supporto della mia famiglia italiana».
Clementine Pacmogda dopo il dottorato ha ottenuto per due volte assegni di ricerca alla Normale. Poi ha fatto l’insegnante di sostegno a Borgo Val di Taro, Parma, dove si è trasferita con la famiglia. «L’ho scelto perché nel mio Paese questa figura non esiste. Se hai un figlio con dei problemi, te lo tieni a casa», racconta. Lo scorso 1° febbraio ha vinto un assegno di ricerca all’Università Federico II di Napoli e si occupa di multilinguismo. Ha scritto tre libri autobiografici.
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