Il Tirreno

Costa Concordia: 13 gennaio 2012 - 2022
IL RICORDO

Decennale Concordia, Don Lorenzo: "Le campane permisero a tanti naufraghi di salvarsi"

Francesca Ferri
Decennale Concordia, Don Lorenzo: "Le campane permisero a tanti naufraghi di salvarsi"

Don Lorenzo Pasquotti, l’allora parroco dell’isola: «Corsi subito a suonarle, così da far capire a chi si trovava sul lato del mare che la costa era vicina»

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ISOLA DEL GIGLIO. Quando capì che quella mastodontica nave inclinata davanti a Punta Gabbianara era in difficoltà e che migliaia di disperati si sentivano in trappola, don Lorenzo Pasquotti corse a suonare le campane. «Così – pensò – chi si trova sul lato che dà verso il mare aperto e vede solo nero davanti a sé, capirà che c’è vicino una chiesa. E se c’è una chiesa c’è un paese. E se c’è un paese ci sono anime che si prenderanno cura di lui».

Don Lorenzo Pasquotti, “il prete dei naufraghi”, tornerà oggi dopo oltre un anno nella chiesa sull’isola del Giglio, che la tragica notte del 13 gennaio di dieci anni fa diventò ostello per i sopravvissuti al naufragio della Costa Concordia. Oggi in quella chiesa alle 12 il vescovo Giovanni Roncari, l’attuale parroco, don Lido Lodolini e don Lorenzo celebreranno la messa di suffragio per le vittime, 32 passeggeri, la più piccola dei quali, Dayana Arlotti, aveva appena 5 anni, e il sommozzatore galiziano Israel Franco Moreno, 40 anni, durante le operazioni di rimozione del relitto.

Oggi don Lorenzo ha 71 anni e da circa un anno abita sul monte Amiata, dove regge «due parrocchiette piccoline», Bagnolo e Bagnore. «Una scelta mia, sofferta e dolorosa, pensata. Al Giglio ci stavo bene, mi manca, ma comincio ad avere i miei anni, i miei problemi di salute».

Milanese, era arrivato al Giglio da appena tre mesi quando la Concordia naufragò davanti al porticciolo. E come tutti gli isolani, anche lui aprì la sua casa agli uomini, alle donne e ai bambini terrorizzati e spaesati. Un borgo marinaro di appena 300-400 persone che nel cuore di una notte di gennaio si trova con 4.200 naufraghi sul molo, alcuni arrivati annaspando nell’acqua, altri sbarcati sotto choc dalle scialuppe, altri ancora feriti. Aprì la sua casa e la sua chiesa.

Lui, le quattro suore e le donne della parrocchia dettero ai naufraghi pane, latte caldo, coperte. E quando queste finirono, lasciò che si coprissero con i drappi, con i paramenti sacri.

In dieci anni i ricordi si sono annacquati, i contatti con i naufraghi si sono interrotti, ma certe cose non si dimenticano. «È stato un dramma muto – ricorda don Lorenzo –. Non urlava nessuno, non c’erano segni di disperazione, sfoghi, tensione. Erano ormai a terra, davano per scontato di essere fuori pericolo. Ma erano disorientati. Molti non avevano idea di dove si trovassero». C’era chi chiedeva dove prendere un taxi, chi cercava un treno per Roma. «A me in tutte le lingue me lo chiedevano. “Dove siamo? Che state facendo per noi?”», dice don Lorenzo.

Cosa stava facendo la gente del Giglio? Dava tutta se stessa. «C’è chi ha consegnato la sua casa, con dentro la sua roba, a gente che non aveva mai visto prima. Hanno detto loro: “Ecco, qui c’è il bagno, questo è l’armadio se ti vuoi vestire, qui c’è il letto. Fai come fossi a casa tua, io torno al porto, perché hanno bisogno di me”».

Un pensiero speciale va alle suore: «Hanno raccolto i bambini, li hanno portati nell’asilo, l’unico posto caldo, li hanno fatti giocare». Una suora indonesiana e una filippina fecero da traduttrici per molti ragazzi del personale di bordo. «Giovani musulmani accolti in una chiesa cattolica da suore che parlavano la loro lingua e che dicevano loro che ora era tutto a posto», ricorda don Lorenzo.

Don Lorenzo non è stato da meno. Il croupier del casinò della Concordia, un giovane peruviano, si presentò in chiesa fradicio. Si era buttato in acqua ed era congelato. Don Lorenzo lo portò a casa sua, lo fece cambiare e lo lasciò a dormire sul divano, con i suoi cani a fargli da compagnia.

Oggi, sul suo comodino, don Lorenzo tiene le foto del padre, della madre, del Papa e una piccola scheggia del granito che finì nella Concordia. «È il ricordo di quello che è successo, delle persone che ho conosciuto, dei passeggeri, degli equipaggi, dei parenti dei morti, di chi venne per i soccorsi e per il recupero della nave, delle forze dell’ordine. È un segno di quel che è stato. E ringrazio Dio di esserci passato attraverso. Perché ora sono un uomo più ricco».

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