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Così riportammo alla luce il corpo di Alfredino - Video
Dopo 33 anni dalla tragedia a Vermicino parlano i minatori della Solmine di Gavorrano che furono chiamati per scavare il tunnel parallelo grazie al quale fu possibile raggiungere e recuperare i resti del bambino - i commenti dei lettori
GAVORRANO Arrivarono un mese dopo, per ultimi. Delle migliaia di curiosi era rimasto solo un manipolo di irriducibili che neanche l'overdose da primo reality della storia d'Italia riuscì a scoraggiare. Le telecamere se ne erano andate da un pezzo e con loro gli speleologi, l'uomo ragno, gli esperti del momento e i bibitari che in quella tragedia avevano fiutato l'affare. Alfredino, però, era sempre lì. Sospeso nell'abisso, in posizione fetale, a sessanta metri sottoterra. Cristallizzato dal soffio di azoto liquido che avrebbe dovuto conservarlo integro. Un mese prima la sua corsa nella sera delle campagne romane era finita dentro ad un pozzo artesiano tanto stretto (27 centimetri) quanto lungo (circa 80 metri).
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Era il 10 giugno 1981 e da quel giorno niente sarebbe più stato come prima. Toccò ai minatori della Solmine di Gavorrano estrarre la salma di Alfredo Rampi, il bambino di Vermicino, dall'abbraccio della terra e mettere un punto alla storia che commosse il Paese. Il loro intervento seguì gli sforzi disperati di un'Italia tanto generosa e appassionata quanto disorganizzata e improvvisatrice. Quel campo vicino Frascati divenne il palcoscenico dove si esibirono acrobati, vigili del fuoco, uomini minuti, coraggiosi, il presidente della Repubblica. Per tre giorni passarono in secondo piano una crisi di governo, il rapimento di Roberto Peci, lo scandalo P2. Ma alla fine il salvataggio divenne fallimento, la speranza delusione collettiva. E se bastò un istante a risucchiare quel bambino di sei anni nel buio ci volle un mese (11 luglio 1981) per riportarlo alla luce.
Il riscatto. L'operazione di recupero - nella tragedia - fu un successo tecnico, risolto nel giro di pochi giorni, una prova di professionalità. Al punto che, i cronisti di allora cominciarono a chiedersi cosa sarebbe accaduto se si fosse pensato per tempo ai minatori. Eppure non erano esperti di soccorso ma «gente di provincia» che fino ad allora aveva scavato solo per estrarre pirite da trasformare in acido solforico. «In quegli anni eravamo comunque più organizzati dei vigili del fuoco che cercarono di liberare Alfredino», sostiene Alberto Torresi tecnico impianti della spedizione Solmine. Non a caso, la Protezione civile venne istituita pochi mesi dopo per volontà del presidente Pertini.
La spedizione. «Ero a Massa Marittima per un corso d'inglese - ricorda Torello Martinozzi, caposervizio minatori - quando mi telefonano dall'azienda e mi dicono che il giorno seguente dovrò andare a Vermicino per un sopralluogo. C'era da estrarre il corpo di Alfredo Rampi. La sera rientrai per cena e raccontai tutto: mia moglie si mise a piangere e mio figlio rimase a bocca aperta. Avevamo seguìto la storia come tutti, in televisione. E chi ci pensava?». Si scoprì solo in seguito che la richiesta d'aiuto ai vertici di Solmine partì direttamente da Elveno Pastorelli, capo dei vigili del fuoco e responsabile delle operazioni di salvataggio. Toccò a Martinozzi selezionare i ventuno minatori che fecero parte della spedizione su base volontaria. Furono scelti i migliori.
Il viaggio. La squadra raggiunse Vermicino il quattro luglio. «Alloggiavamo in albergo a Frascati - ricorda il caposervizio - e non ci siamo mai fermati. Lavoravamo in tre turni di otto ore, c'era un pullman a fare la spola tra il pozzo e l'hotel. Era un ciclo continuo dove i martelli pneumatici si alternavano ai picconi». «Ci calavamo in un pozzo di servizio che aveva un diametro di 80 centimetri. Era piccolissimo, entravamo due per volta», ricorda Mario Zanaboni ex minatore. Da lì gli operai dovevano scavare una galleria lunga sedici metri per raggiungere il pozzo artesiano che aveva inghiottito Alfredino Rampi per poi recuperare il corpo dall'alto. «La pressione che avevamo addosso era incredibile - dice Martinozzi - la mia unica preoccupazione era far presto e bene». E poi lì intorno c'erano ancora tanti occhi.
Alfredo. Verso la mezzanotte del 10 luglio, la squadra di turno trovò una bolla di terreno ghiacciato. Erano tracce di azoto liquido. Si stavano avvicinando ad Alfredino e se ne accorsero anche dalle esalazioni. «I minatori che dovevano smontare - ricorda Torresi (stava manovrando il verricello) - restarono sottoterra per lavorare insieme a quelli del turno dopo. C'era la voglia di arrivare fino in fondo». Dal diario di Torello Martinozzi: «Undici luglio. Ore sette del mattino. Dal pozzo in cui si trova il bambino cade del materiale e si scopre una gamba. Il recupero sembra imminente. Verrà effettuato intorno alle quindici». A quel punto la magistratura dispone che siano i minatori di Gavorrano a riportare in superficie Alfredo Rampi. Toccherà a Spartaco Stacchini, che al tempo aveva 37 anni, separare il corpo del bambino dalla terra indurita dall'azoto liquido. «Quando arrivò in superficie era ridotto ad un blocco di ghiaccio - ricorda Torresi - fu un momento emozionante». Molti piansero, guardarono quel che restava di Alfredo e pensarono ai loro figli.Il lavoro era finito.
Il ritorno. I minatori tornarono a casa a una settimana dal loro arrivo. Di lì a poco la cava che garantiva loro uno stipendio sarebbe chiusa, in molti avrebbero abbandonato il mestiere. Dei ventuno che recuperarono Alfredino oggi ne sono rimasti meno della metà. Il viaggio a Vermicino fu un goccia nel mare della loro vita ma resta la traccia di un ricordo vivo e anche se i minatori non parlano spesso di questa storia le loro pareti e i cassetti delle loro credenze sono pieni di foto e ritagli di giornale che li riportano a quel luglio di trentatré anni fa. «Se ci ho mai ripensato? Certo. Non mi toglierò più dalla mente quel piedino e i calzoncini rossi che affiorano dalla terra. Sono convito che se a Vermicino avessero mandato subito qualcuno che se ne intendeva - dice Martinozzi - la storia avrebbe avuto un finale diverso. Pastorelli avrebbe dovuto chiedersi per quale motivo il bambino si era fermato a trenta metri in un primo momento. Nella risposta c'era anche la soluzione per salvarlo. Invece, utilizzarono una trivella a percussione che scavava a neanche un metro dal pozzo artesiano di Alfredino. Lo fecero scivolare giù, a sessanta metri».