Il film su Enrico Berlinguer, lo abbiamo visto insieme all’ex ministro Vannino Chiti: cosa colpisce e le scene più belle
Molto interessante, secondo il politico pistoiese, la ricostruzione della vita privata del leader del Pci
PISTOIA. Dissolvenza. Primo quadro: Enrico Berlinguer, interpretato dall’attore Elio Germano, ha la camicia bianca sbottonata, l’orlo dei calzoni arricciati. Ondeggia le gambe: la sua ginnastica, fisica e mentale, prima dell’incontro con il leader del governo comunista bulgaro a Sofia. Di profilo, la ritrosa nella sua folta capigliatura. «Proprio come erano i suoi capelli», commenta con un guizzo dalla poltrona, ricordando le immagini del vero Berlinguer che custodisce nella sua mente Vannino Chiti, politico pistoiese (oggi presidente dell’istituto toscano della Resistenza e dell’età contemporanea) che ha vissuto la storia del Pci e dei suoi cambiamenti, come funzionario di partito prima (segretario provinciale e per anni componente del comitato centrale) e amministratore poi: del Comune di Pistoia, di cui è stato assessore e sindaco, come presidente della Regione Toscana, come ministro per le Riforme istituzionali e i rapporti col Parlamento, come vice presidente del Senato. Un commentatore davvero d’eccezione per il film appena arrivato nelle sale (in questo caso quella del cinema Roma, in via Laudesi a Pistoia) “La grande ambizione”, di Andrea Segre, che ripercorre la fase più saliente della vita politica di Berlinguer: dal 1972 al 1978, dall’attentato di cui fu vittima di ritorno dal viaggio a Sofia fino al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro, fine del sogno del compromesso storico.
«Seppure sia evidente la scelta del regista di non far essere l’attore protagonista un vero sosia del personaggio che interpreta, anche se la voce è molto vicina a quella di Berliguer», quella operata nel film «è una ricostruzione molto fedele alla vita pubblica e privata del leader comunista», se ne convince sempre più Chiti mentre il film si dipana. A partire dall’attentato all’aeroporto di Sofia. «La corsia verso l’aereo era stata chiusa per far passare la delegazione – spiega –. Il camion che travolge l’auto su cui viaggiava Berlinguer (che rimase ferito e fu ricoverato; l’incidente costò la vita al giovane interprete, ndr) era stato fatto passare, è evidente. Di quell’attentato si è sempre saputo poco, anche Berlinguer non amava parlarne».
Colpisce, secondo Chiti, la ricostruzione della vita privata di Berlinguer: nel film, quando è a casa, rispetta i turni per lavare i piatti, lavora dalla sua scrivania in salotto, con la figlia più piccola in braccio e i più grandi che parlano e giocano davanti a lui.
«Era proprio così – racconta Chiti –. Tutti noi dirigenti del Pci sapevamo che a casa Berlinguer faceva i turni per i piatti. Ed è vero, anche se può sembrare incredibile, che un personaggio come lui non avesse un proprio studio, ma una scrivania in salotto sulla quale scriveva a mano le sue relazioni. Anche il rapporto con la moglie è ricostruito fedelmente: Letizia era una donna intelligente e autonoma, cattolica praticante; la domenica il marito l’accompagnava a messa e la aspettava fuori. La sua attenzione e dedizione alla famiglia era grande: parlava poco delle cose private, ma si sapeva che era così».
Un leader molto amato, coraggioso nelle scelte politiche (la dichiarazione di eurocomunismo al congresso di Mosca in cui viene pochissimo applaudito), aperto alla partecipazione e alla valorizzazione delle donne. Anche in questi aspetti che emergono con forza dalla narrazione del film, Chiti ritrova il Berlinguer che lui ha conosciuto, che mai, neanche ai comizi, parlava in prima persona singolare ma sempre usando il “noi”.
«La prima volta che ci ho parlato a tu per tu – racconta – ero segretario provinciale del Pci di Pistoia. Avevo circa trent’anni: fu quando disse a me, come a tutti gli altri segretari, di non accettare soldi per il partito che non provenissero dal tesseramento, dalle feste o dalle sottoscrizioni; il finanziamento pubblico ai partiti era divenuto legge e lui pretendeva il massimo rigore. Rimasi intimidito quella volta. Erano i tempi in cui Berlinguer aveva deciso di interrompere i rapporti con il Partito comunista sovietico, come si vede nel film».
Non “riconosce” nel lungometraggio di Segre solo Berlinguer, ma anche i suoi più stretti collaboratori, come Gianni Cervetti (all’epoca responsabile dell’organizzazione del Pci), e Alessandro Natta. «Pietro Ingrao no, l’attore è molto diverso dal vero politico», dice Chiti.
La fase in cui il progetto del compromesso storico sembra davvero prendere corpo, i dialoghi serrati di Berlinguer con gli esponenti di punta della Dc (Giulio Andreotti e Aldo Moro, in particolare) hanno quasi il ritmo del thriller, infarciti come sono delle riprese originali delle manifestazioni di piazza e dei fatti più crudi del terrorismo di quegli anni, come la strage di Brescia, e fino al rapimento di Moro, il 16 marzo del 1978. Nei giorni del rapimento, si racconta nel film, Berlinguer, dopo avere parlato con la moglie, riunì lei e i figli per dire che nel caso in cui «toccasse a me» se avesse scritto loro pregandoli di chiedere di rilasciarlo «quello non sarei io. Oggi vi dico, da uomo libero, che in una situazione del genere non vorrei essere rilasciato».
«È una scena bellissima – commenta Chiti –, e corrisponde alla verità dei fatti. Berlinguer davvero, temendo di essere rapito, disse alla famiglia che nel caso fosse accaduto, mai nessuno avrebbe dovuto chiedere il suo rilascio. Lo rivedo moltissimo anche nella scena in cui scrive alla moglie per dirle che in tanti momenti della loro vita familiare non era stato presente, per via dell’incarico che ricopriva. Era vero, per tutti i militanti del Pci, tutti, l’attività politica significava mettere la vita a servizio della causa, sacrificando la vita personale e familiare».
Quando scorrono, poco prima dei titoli di coda, le immagini del funerale di Berlinguer, morto come Moro a 62 anni di età, nella sala del cinema Roma si sente qualcuno piangere. «Anche questa – commenta Chiti – è partecipazione».