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L'intervista

Andrea Armillei, operato tredici ore al cervello: «La mia partita contro l’epilessia». Come se n’è accorto e la nuova vita

di Federico Lazzotti

	Armillei in campo festeggia la vittoria nel derby e la Serie B e di fianco a casa dopo l'operazione
Armillei in campo festeggia la vittoria nel derby e la Serie B e di fianco a casa dopo l'operazione

L’ex giocatore di basket della Libertas Livorno racconta la sua battaglia contro l’epilessia, l’intervento di 13 ore e la voglia di tornare in campo

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Ventotto maggio 2017. Al Palamacchia di Livorno davanti a oltre tremila spettatori va in scena il derby di serie C tra la (vecchia) Libertas e la Pielle. Siamo a gara tre della serie finale che quella notte regalerà ai gialloblù il ritorno in serie B dopo cinque lustri. Per la pallacanestro livornese è il seme capace di far rinascere, grazie alla rivalità, una passione che si era assopita. Ma per Andrea Armillei, 18 punti e la palma di miglior giocatore della partita, quella vittoria vale anche di più. Per questo quando suona la sirena, il numero 20 alza i pugni al cielo. Il suo urlo è diverso da quello dei compagni. È più profondo. Dentro ci sono felicità, riscatto, liberazione. Chi non sa guarda e applaude il miglior giocatore delle finali. Chi sa osserva l’uomo e il suo coraggio e a stento trattiene le lacrime. 

«Pochi mesi prima – racconta otto anni dopo “Armi”, cresciuto nella cantera del Don Bosco e una carriera da star nelle minors – avevo scoperto di essere epilettico e mi era crollato il mondo addosso». Oggi Andrea, 39 anni, dopo la partita più lunga e difficile della sua vita, ha sconfitto la malattia. «Il mese scorso sono stato operato alla testa all’ospedale di Genova: mi hanno letteralmente aperto il cranio partendo dall’orecchio. Tredici ore di intervento durante le quali mi hanno asportato la zona del cervello che generava le crisi. Mi hanno dato talmente tanti punti tra interni ed esterni che a un certo punto hanno smesso di contarli».

Adesso come sta?

«Bene, i primi giorni dopo l’operazione sono stati i più duri: avevo dolori, il viso e gli occhi gonfi. E soprattutto non sapevo se il rischio che mi ero preso decidendo di sottopormi all’intervento aveva dato il risultato sperato».

Ora che sono trascorse tre settimane?

«Direi bene, ho ripreso la mia vita normale, a parte il lavoro che riprenderò a marzo. Ho una bella cicatrice sulla testa ma la cosa più importante è che dopo l’intervento non ho avuto più crisi. Per essere sicuri di aver eliminato il problema c’è ancora da aspettare. Ma diciamo che la strada è quella giusta».

Torniamo a quella sera. Scriveva di lei sul Tirreno il collega Andrea Masini nelle pagelle: «Armillei 7.5, prestazione totale che gli vale la palma di mvp di gara-3 e probabilmente di tutto il percorso (netto) playoff della Libertas: 18 punti e due scippi in apertura di quarto periodo che, per chi conosce un po’ di basket, valgono oro. Ma soprattutto suggella nel migliore dei modi un’annata assolutamente non semplice per tanti motivi. Cuore e orgoglio. Chapeau!».

«Effettivamente giocai davvero bene sia il campionato che la serie finale. Ma ancora più di gara-3, ho in testa gara-2 quando vincemmo sulla sirena con una bomba incredibile di Simone Marchini: presi io il rimbalzo aprendo il contropiede per Gonzalo (Beltran ndr) che servì Marchini. Nessuno pensava potesse fare canestro e invece...».

In campo festeggiava, ma dentro soffriva. Quando ha avuto la prima crisi epilettica?

«Esatto. All’inizio di quella stagione, la più bella della mia carriera, ho dovuto fare i conti con la malattia»

Come se n’è accorto?

«Sono stati i miei compagni a dirmi che certe volte non stavo bene. Che qualcosa non andava. Che avevo qualche problema. Ma non lo volevo accettare, non è facile affrontare una cosa del genere».

In partita ha mai avuto una crisi?

«Un paio di volte, ma non mi venivano sempre. Quando è capitato Gabriele Pardini, il mio allenatore in quella stagione, mi sostituiva».

Quando ha capito che si trattava di crisi epilettiche?

«Quando ho deciso di farmi ricoverare all’ospedale di Livorno. Mi hanno fatto le analisi e ho avuto la diagnosi».

Prima non aveva mai avuto sintomi?

«Mai niente. Mi hanno spiegato che può accadere».

Nell’immaginario comune una persona epilettica, quando arriva una crisi, inizia a tremare, ha degli spasmi e si rotola per terra...

«Non è così. Per quello che mi riguarda era come cadere in una specie di corto circuito, un déjà-vu che mi bloccava per alcuni secondi. Restavo imbambolato e muovevo una mano in modo incontrollato. Almeno così mi raccontano. Paradossalmente quando hai crisi evidenti, più violente, è più semplice per i medici capire quale parte del cervello le genera. Insomma, localizzarle».

Quale è stata la cosa più difficile?

«Più di una. Intanto accettare la malattia, poi dirlo alle persone. Magari dopo che avevano assistito a una mia crisi. Molti non capiscono la difficoltà di chi è malato e si trova di fronte facce terrorizzate. E soprattutto cambiare vita, rinunciare a molte cose, ad esempio andare in macchina. Ma quella più complicata è stata trovare la cura giusta».

Perché?

«In questi casi serve una cura personalizzata. I medici fanno dei tentativi per capire quale farmaco o mix di farmaci fa effetto sul paziente. Il problema è che nel mio caso ne hanno provati molti, ma nessuno era risolutivo: li prendevo, arrivavo al picco del dosaggio e poi dovevo diminuire per iniziare una nuova cura. Così ho scoperto di essere un soggetto farmaco resistente. In altre parole nessun medicinale mi aiutava».

Con il basket come ha fatto?

«Ho cercato di arrangiarmi, di fare il possibile. Ci sono stati momenti duri. Anche perché dopo quella stagione mi sono arrivate un sacco di proposte ma le ho dovute tutte scartare perché erano lontane e non potevo certo usare l’auto. Quindi da quel momento ho sempre scelto squadre a Livorno o dove giocavano altri livornesi con i quali viaggiare».

Dalla diagnosi all’operazione sono passati otto anni, un periodo lunghissimo...

«Perché non è facile trovare la strada giusta. Mi sono fatto vedere a Livorno, ad Arezzo e poi all’istituto neurologico “Carlo Besta” di Milano».

E cosa hanno scoperto?

«A Milano sono stato ricoverato diverse volte, mi hanno messo una serie elettrodi alla testa collegati ai macchinari per mappare il mio cervello e vedere da dove partivano le crisi. Ovviamente la prima volta non ho avuto alcun sintomo. La seconda per fortuna sì. È stato il medico che mi seguiva Flavio Villani a propormi l’intervento, che ho deciso di fare a Genova quando lui è stato trasferito in Liguria. Dell’équipe che mi ha seguito fanno parte anche Pietro Mattioli e Viola Concetta, la dottoressa che ha eseguito l’intervento».

Quanto ci ha pensato prima di accettare?

«Tanto, perché i rischi erano alti. Le dico solo che prima di entrare in sala operatoria ho dovuto firmare un sacco di fogli. Ma questa era anche l’unica strada per avere di nuovo una vita normale. È quello che mi ha spinto ad operarmi: rivolevo la mia vita, stare con mio figlio e tornare ad essere una persona indipendente».

Cosa le hanno detto i medici quando si è risvegliato?

«Sono felicissimi di come è andata. E anche io sono felice».

La prima cosa che ha pensato?

«Quando mi sono svegliato ero molto stordito. Mi hanno fatto due anestesie e riprendermi non è stato facile. Anche fare cose semplici come tornare a mangiare è stato complesso. Ma in quattro, cinque giorni sono tornato me stesso. Mi ha spinto la voglia di ripartire».

E adesso?

«Aspetto. Per tornare a guidare ci vorrà un anno. Ma la cosa che mi interessa di più è mio figlio. Voglio tornare alla mia vita, ma già in queste settimane sento che è ripartita e sono contento».

Il momento più buio e il momento più bello di questo viaggio con la malattia?

«Il momento peggiore, quando provavo i farmaci e non funzionavano. Quello più bello, adesso: vedo che sto bene e sono la persona che ero prima».

È vero che vorrebbe tornare a giocare a basket?

«Sì, potrei tornare, mi hanno detto che posso farlo. E sono molto contento». l

 

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