Il Tirreno

Sport

L'intervista

I 60 anni del “ragnetto” Donadoni: «L’Arabia non si fermerà, fidatevi. Spalletti ci porterà al Mondiale»

di Luca Tronchetti
Roberto Donadoni
Roberto Donadoni

L’esordio nel calcio dei grandi con mister Bianchi: «Diceva che non perdevo mai la palla. Pulisic mi somiglia, il Milan mi ha impressionato»

08 settembre 2023
5 MINUTI DI LETTURA





Il Signore della fascia destra, tra i migliori giocatori italiani degli anni Novanta, è stato il prototipo di un calcio propositivo e votato all’attacco in un decennio contrassegnato dai trionfi del Milan di Berlusconi.

Veloce, intelligente, duttile, dotato di grande tecnica, dribbling, senso della posizione e spirito di sacrificio è stato un collante per compagni e un esempio per gli avversari dall’alto della sua correttezza esemplare.

Roberto Donadoni, uno di poche parole e molti fatti, non ha mai amato i riflettori. E sabato 9 settembre che compie 60 anni li festeggerà nel modo più semplice.

«Un traguardo importante della vita. Resterò a casa cenando con le persone care in attesa di ricevere telefonate degli amici come Franco Baresi, Filippo e Giovanni Galli, Tassotti, Evani, Costacurta e Panucci. La tv sarà accesa per assistere alla partita dell’Italia contro la Macedonia del Nord. Sono convinto che Spalletti sia stata la scelta giusta. Riporterà la Nazionale ai Mondiali».

I successi

Il palmares di Donadoni parla di 22 trionfi tra titoli italiani, europei e intercontinentali, comprese due promozioni consecutive, dalla C1 alla A, conquistate con la maglia dell’Atalanta.

Quelli che restano nella storia del calcio però sono ottenuti con il Milan, la squadra in cui ha giocato 12 stagioni con 390 partite e 23 gol: sei scudetti, tre Champions, due coppe Intercontinentali, tre supercoppa Uefa, quattro supercoppa italiana. Ma non solo. C’è di più.

Pioniere d’Arabia

È stato l’unico italiano a conquistare nella stagione 1999-2000 due titoli in Arabia Saudita, oggi la Mecca del calcio, con la maglia dell’Al-Ittihad. «Già 23 anni fa il calcio in quei paesi era molto sentito. All’epoca non c’era questa invasione di stranieri pagati a peso d’oro, ma c’erano dei talenti che andavano coltivati. Se gli sceicchi non penseranno soltanto a fare la raccolta dei campioni, ma inseriranno validi allenatori, faranno crescere il movimento e tra qualche anno potremmo trovare una nazionale molto competitiva. La scelta di Mancini, va in quella direzione».

Lotta scudetto

Sul campionato italiano ha le idee chiare: «Sarà una lotta a quattro: Inter, Milan, Napoli e Juventus. Dico la verità: sono rimasto sorpreso dal gioco espresso dai rossoneri. Pioli è stato bravo a trovare la quadra in poco tempo nonostante i tanti ragazzi nuovi».

Lontano dalla panchina

Stati Uniti e Arabia Saudita da calciatore, Cina da allenatore. Gli manca l’Australia per esser l’allenatore dei cinque continenti. Ma dopo l’esperienza allo Shenzhen in Super League conclusasi nell’estate del 2020 il tecnico bergamasco non ha più trovato un progetto tecnico da sposare: «Io sono pronto, ma per adesso nessuno mi chiama».

Dall’oratorio all’Atalanta

Nasce a Cisano Bergamasco, paesino di 6mila abitanti, da babbo Ercole, autotrasportatore e mamma Giacomina, casalinga. Il fascino del pallone è talmente forte che, assieme al fratello maggiore Giorgio, inizia a sgambettare all’oratorio: «A 150 metri da casa. Facemmo tagliare dal fabbro del paese i pali di vecchi lampioni dismessi e costruimmo così le porte». Roberto s’impone in fretta. Già in parrocchia è talmente bravo che gli proibiscono di passare la metà campo e di segnare. A 11 anni gioca nei Giovanissimi quando Raffaello Bonifacio, per 33 anni talent scout dell’Atalanta, decide di andare a vedere Cisanese-Telgate. L’osservatore orobico resta colpito da un ragazzetto magrissimo ambidestro, che scarta gli avversari con irrisoria facilità: Roberto Donadoni. «A 12 anni ero uno scricciolo rispetto agli altri ragazzi dell’Atalanta decisamente più strutturati. Nella categoria Allievi non avevo ancora uno sviluppo fisico adeguato e la società valutò di cedermi al Ponte San Pietro in D. A salvarmi fu l’intervento di mio fratello che manifestò l’intenzione di acquistare il mio cartellino se il club mi avesse lasciato andare. Fu la svolta».

Gli allenatori

«Bianchi, il tecnico che mi fece esordire, mi aveva ribattezzato “il ragnetto”. Diceva che sapevo sempre uscire da ogni angolo e da ogni situazione complicata palla al piede. Con Sonetti, toscanaccio verace dal temperamento sanguigno, ho rischiato di venire alle mani più di una volta. Ma i suoi insegnamenti mi sono serviti. Mi diceva sempre: “O ti faccio diventare giocatore o ti faccio smettere”. Sacchi e Capello sono stati fondamentali. Arrigo ha cambiato la mentalità del calcio in Italia. Gli inizi sono stati complicati: la sconfitta a San Siro con l’Ascoli, l’eliminazione dalla Coppa Uefa, le critiche e i fischi dei tifosi. La svolta a Verona: vincemmo e da lì iniziò la cavalcata. L’ossessiva meticolosità e l’assoluto rigore erano il suo punto debole di: difficile sopportarlo per quattro-cinque anni consecutivi. Contrariamente al gestore di uomini che era Don Fabio, Sacchi non era stato un calciatore e non sapeva quando era il momento di mantenere la calma. A questi tecnici ne aggiungo uno che, pur non avendomi allenato, ho stimato per la semplicità, l’umiltà e l’equilibrio: Gigi Simoni».

L’ombra di Lippi

Un matrimonio, quello con la maglia azzurra, durato 12 anni. Dal 1986 al 1996 da calciatore con 63 presenze e 5 gol, un secondo posto ai Mondiali del ’94 e un amaro terzo posto a Italia ’90 con quel rigore sbagliato, assieme a Serena, nella semifinale contro l’Argentina. Diverso e per certi versi inspiegabile il percorso da ct. Chiamato a sostituire Marcello Lippi dopo la vittoria ai Mondiali del 2006 nelle 23 partite sulla panchina azzurra conquistò 13 vittorie, 5 pari e 5 sconfitte, ma solo due in partite ufficiali con un esonero arrivato dopo l’eliminazione ai rigori nei quarti dell’Europeo del 2008 con la Spagna dei marziani: «Venni licenziato per il mancato raggiungimento delle finali. In realtà soffiava forte il vento del ritorno di Lippi. Mi viene da sorridere pensando alle eliminazioni al primo turno dei Mondiali nel 2010 e poi nel 2014) e la mancata qualificazione alle fase finali degli ultimi otto anni. Ma non ho rimpianti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA


 

Primo piano
La buona notizia

Prato, si rompe il femore a 103 anni e torna a camminare 6 giorni dopo l’operazione. Il bacio di Mafalda al suo “salvatore”