Il Tirreno

Prato

Il personaggio

I ricordi di Giovanni Bertini ministro dell’agricoltura con Facta

di Gian Ugo Berti
Gian Ugo Berti è medico giornalista e nipote di Giovanni Bertini
Gian Ugo Berti è medico giornalista e nipote di Giovanni Bertini

In un’intervista rilasciata anni dopo ripercorse le ore che cambiarono l’Italia. Disse: «Fosse stato per noi pratesi, il fascismo non sarebbe emerso»

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PRATO.  Già alle 6 di mattina in quel drammatico 28 ottobre 1922, l’avvocato pratese, Giovanni Bertini, era presente al Consiglio dei ministri, come ministro dell’Agricoltura. Il presidente del Consiglio Luigi Facta voleva infatti esporre la situazione insurrezionale iniziatasi nella notte. Come da verbale, fu un incontro in cui, «all’unanimità si decise di proporre al Re la proclamazione dello stato d’assedio e si autorizzavano tutti provvedimenti occorrenti per fronteggiare la situazione politica e finanziaria, conferendo ai Ministri competenti le relative facoltà, con ogni più ampio mandato di fiducia e incondizionata delega al riguardo, perché la crisi si svolgesse in piena libertà».

Così cominciò uno dei giorni certo più difficili per il nostro Paese soprattutto perché, nonostante questo esplicito impegno dell’esecutivo a contrastare gli eventi nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, le cose andarono diversamente. In sintesi, questa è la cronistoria di quei momenti, dai toni fortemente emotivi proprio perché personalmente vissuta, che dà la misura di quanta sofferenza si stava diffondendo fra chi sperava in una forte risposta dello Stato. E Bertini – nelle memorie rilasciate a suo tempo al giornalista Angiolo Berti – spiegò con sicurezza come il “no” decisivo allo stato d’assedio fu personalmente di Vittorio Emanuele. Una scelta importante che, di fatto, decise la svolta della storia.

«Tutti capirono che la soluzione della crisi era ormai urgente, ma soltanto una minoranza si mostrò decisa a resistere. L’Italia era ormai un caos. Si pensi che pur essendo prevista la resistenza armata dell’Esercito, Facta, era incerto a dare gli ordini necessari. Con Facta, prima ancora che il presidente del Consiglio si recasse alla stazione a ricevere Vittorio Emanuele, Bertini e pochi altri ebbero un decisivo colloquio.

«Fu una sensazione penosa – aggiunse accigliato – e ci chiedemmo come poteva il Paese farsi guidare da un personaggio di quel tipo».

Parole gravi, ma espressione, purtroppo, della consapevolezza che si stesse per giungere inevitabilmente a un tragico epilogo annunciato. Dall’alba al tramonto trascorsero quindi solo una manciata d’ore, piene di trepidazione ed anche di timore, sufficienti però a cambiare drasticamente il corso degli avvenimenti. Quella sera, infatti, davanti alla reale ineluttabilità della situazione, il Ministro dell’Interno Taddei parlando con un gruppetto di colleghi disse: «Sentiamo un toscano di razza (Bertini) come sono i pratesi: può l’Italia evitare il fascismo?».

Pronta la risposta d’una persona franca e leale: «La responsabilità è in gran parte d’una classe politica della quale noi siamo stati espressione. Se il fascismo vince, due sono senz’altro i motivi: incutendo paura con le squadre d’azione, specie quelle fiorentine e dando alla borghesia la quasi certezza che i partiti di oggi, a cominciare dal mio (il Ppi ndr) non hanno più nulla da dire. Solo la forza – precisò- potrebbe favorire il nostro riscatto». E negli anni successivi, ogni volta che rammentava quel 28 ottobre, emergeva in lui l’amarezza dell’uomo politico che aveva dedicato sé stesso agli ideali di democrazia e rispetto, consapevole in ogni caso della realtà sociale dell’Italia e d’un avvenimento che avrebbe mutato il destino della nazione.

«Eravamo senza truppe – qui la lucida pragmaticità di Bertini – e va preso atto che il mondo ecclesiastico era solo in parte con noi».

Era inevitabile il fascismo?

«Al punto in cui eravamo arrivati, ritengo di no».

Perché lo dovemmo sopportare?

Seguirono parole dure e ferme: «Per i tanti errori commessi».

Bertini fece un’altra storica considerazione. «Il popolo italiano, commise certamente errori; ha pagato, ma il prezzo è stato troppo alto e nessuno lo deve dimenticare, soprattutto i nostri giovani, perché non ricordare significa, poi, non avere futuro».

Ed ancora, rammentò preoccupato. «Vogliamo renderci conto, che i cittadini non sanno quello che sta avvenendo nel Paese?».

Gli fece eco Giovanni Amendola, Ministro delle Colonie: «Ne sono convinto, ma le responsabilità coinvolgono soprattutto noi Ministri. Non ci rendiamo conto che stiamo affondando?»

Appare comunque oggi doverosa un’attenta e profonda riflessione, in una chiave d’obiettiva veridicità storica: fino a che punto la vittoria del fascismo è merito di Mussolini o demerito, a parte altre responsabilità sociali, della classe politica del tempo? Bertini, forte delle esperienze personali di fine secolo, fu certo tra i più incisivi e intransigenti, perché forse vedeva più lontano di altri e la storia diede atto del coraggio.

«A Prato – aggiunse, con una punta d’ironia, allargando le braccia – siamo fatti così». Poi, immerso in quegli indelebili ricordi, concluse: «Fosse stato per noi, sono sicuro che il fascismo non sarebbe emerso».


 

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