Elba, «uccise la madre con i farmaci»: condanna ridotta a 12 anni
Riconosciuta una semi-infermità mentale per Maria Cristina Nuccetelli, con la riduzione della pena di due anni. L'avvocato: «Faremo ricorso»
PORTOFERRAIO. Dodici anni di reclusione per aver ucciso la madre novantenne con un mix di farmaci. La corte d’assise d’appello del tribunale di Firenze ha condannato la sessantacinquenne elbana Maria Cristina Nuccetelli, ritenendola colpevole dell’omicidio della mamma Elisa Fidanza. I giudici, rispetto alla sentenza di primo grado, hanno tuttavia ridotto la pena di due anni, da 14 a 12, riconoscendo nel caso di specie una semi-infermità mentale, non ravvisata invece dal tribunale di Livorno.
La donna – difesa dall’avvocato Giuseppe Rombolà, che presenterà ricorso in Cassazione non appena verranno depositate le motivazioni della pronuncia – il 12 marzo del 2020, prima del lockdown, aveva somministrato la dose letale alla madre malata, tentando di fare lo stesso con se stessa. Alcuni passanti, che hanno visto l’auto con le due donne nel piazzale fuori dalla chiesa di Carpani, a Portoferraio, hanno dato l’allarme facendo intervenire il 118 e i carabinieri. La sessantacinquenne, grazie alle persone che transitavano in zona, è viva: la salveranno i sanitari dell’ospedale. «Volevo morire con lei» Che Fidanza sia morta per il mix di farmaci non è mai stato in discussione. Nuccetelli, agli inquirenti, lo aveva ammesso fin da subito. «Intendevo morire con lei, non ucciderla. Ho provato a liberare lei, me e mio marito da questa vicenda. Me ne è riuscita solo una e pure male, ma almeno lei ora non soffre più. Non c’è pena che possa farmela rimpiangere, c’era troppa sofferenza. Mi piace sperare nell’altro regno, augurandomi che ci riservi il contrario di questa illusione che si chiama vita. Non giustifico il mio gesto: io ho dato la pace a mia mamma, quella che desideravamo tanto», aveva spiegato in una lettera agli atti del processo. La donna, quindi, avrebbe agito perché non voleva più veder soffrire la mamma anziana, in gravi difficoltà di salute, di cui si era sempre presa cura. «Non ho creato problemi, ma all’occorrenza mi sono adoperata per risolverli. Se fossi stata mossa dalla rabbia non avrei agito così, ma me la sarei presa con mio marito o con la badante. La rabbia, in realtà, non mi ha neppure sfiorato. Ero stremata, delusa, dispiaciuta e disperata per non aver modo di alleviare le sofferenze. E credendo in Gesù – le sue parole durante una delle udienze che si sono celebrate nel palazzo di giustizia livornese – e nel suo amore infinito ho pensato che ci potesse accogliere entrambe in cielo». Per spiegare quanto accaduto, quando ancora era ricoverata in ospedale, Nuccetelli aveva scritto una lettera autografa consegnandola a uno dei medici del reparto dove era in degenza. Testo poi acquisito dai militari dell’Arma.
Le perizie psichiatriche
La condanna o l’assoluzione, in primo grado, si giocavano sulle tre perizie psichiatriche disposte nel corso del procedimento: la prima, quella del dottor Enrico Malotti (il professionista incaricato dal giudice per le indagini preliminari) la dichiarò totalmente incapace di intendere e di volere. E dopo di lui il collega Alessandro Milanfranchi – perito della difesa, medico che all’Elba ha avuto in cura la donna – è giunto alle stesse conclusioni, ritenendo che la grave depressione di cui sarebbe stata affetta si fosse aggravata al punto di arrivare al “delirio di rovina”, che l’abbia portata a pensare che non vi fossero strade alternative al suicidio e al suicidio allargato (uccidere la madre, perché ormai non più autonoma). Ma il professor Rolando Paterniti, il medico incaricato dal pubblico ministero Niccolò Volpe di eseguire gli stessi accertamenti, pur riconoscendo il grave stato di depressione riteneva che questo non potesse essere sfociato in delirio, quindi nella volontà dell’omicidio-suicidio riuscito a metà.
L’appello
Nel corso del processo d’appello, a Firenze, la corte d’assise ha voluto ascoltare i medici che hanno visitato la donna, già sentiti in primo grado. Dopodiché i giudici, nella sentenza, hanno riconosciuto una semi-infermità mentale, condannando Nuccetelli a 12 anni di reclusione, due in meno rispetto alla pronuncia di primo grado di un anno e mezzo fa. In ogni caso, l’avvocato Giuseppe Rombolà, presenterà ricorso in Cassazione, chiedendo l’assoluzione della sessantacinquenne elbana. «Non possiamo accettare una sentenza che non rende giustizia, perché la mia assistita ha agito in una condizione di totale incapacità, stretta nella morsa di una gravissima depressione, mi auguro che la Cassazione possa dare pieno riconoscimento alle nostre istanze», il commento del legale.