Il Tirreno

Carrara e gli artisti

Filippo Tincolini: io scultore “indemoniato” perché sbozzo con il robot

MELANIA CARNEVALI
Filippo Tincolini: io scultore “indemoniato” perché sbozzo con il robot

In molti lo criticano, ma ecco come lui risolve il dilemma tra arte e tecnologia

08 marzo 2015
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CARRARA. Per molti ha rovinato la cultura artigianale del marmo, per altri è uno scultore geniale e rivoluzionario: resta il fatto che Filippo Tincolini, classe 1976, pontederese di nascita e carrarese di adozione, è uno degli scultori più conosciuti nel territorio. Nel 2008, insieme alla sua “spalla” Simone Zanaglia (scultore carrarese con cui ha aperto un laboratorio), ha scelto di aprirsi ai robot e adesso il 90 per cento degli artisti famosi che approda a Carrara sceglie le sue macchine e la sua manodopera per creare opere d'arte.

Decidiamo di incontrarlo per il nostro salotto domenicale dedicato agli scultori del territorio. Saliamo quindi sulle Apuane: percorriamo una serie infinita di tornanti e di gallerie che sembravano portare dritto nel ventre della montagna. Arriviamo a Fantiscritti, nel cuore delle cave di marmo, dove nel 2008 è stata girata una scena di uno dei film della serie James Bond. È lì, nel piazzale del laboratorio, che vediamo “Zinzin” (così l'hanno chiamato per il rumore che fa: zii zii..): è un robot al lavoro su un enorme blocco di marmo bianco. Notiamo Tincolini uscire dal capannone, lo salutiamo, ci presentiamo e andiamo subito al sodo.

Tincolini, lei ha quattro robot; non teme che si perda la manualità nella lavorazione del marmo?

«No, perché chi usa la macchina deve avere la consapevolezza dello scultore. È semplicemente un altro strumento che serve per asportare il materiale, proprio come nell'800 veniva utilizzata la mazzetta e negli anni '70 il flessibile o il filo diamantato. Non cambia nulla con i robot. L'importante è il lavoro finale. Una volta asportato il materiale sta allo scultore creare l'opera. Con il robot il materiale stesso si stressa meno perché rimane più integro. E poi i custodi della scultura rimarranno sempre gli artigiani di Carrara. Prima di tutto perché la scultura nasce a monte, quindi se non ci fosse il cavatore non ci sarebbe il marmo. Poi perché a valle non c'è Canova che si mette a scolpire con le proprie mani l'opera d'arte: sono gli artigiani che conoscono il verso, lavorano il marmo e danno a un Canova o a un Michelangelo la scultura già abbozzata. Adesso, spesso, manca anche questo passaggio finale. Per molti (ride, ndr) è già persino troppo mandarti una e-mail con un file e con scritto: “voglio questo”».

È stato criticato per aver scelto di utilizzare le macchine?

«Sono stato demonizzato. Però io, ad esempio, domando sempre a chi viene in cava, e magari critica l'uso dei robot, “Come sei venuto su? Con il ciuco? O con l'auto?”».

Quante persone lavorano qui?

«Circa diciotto, ma cambiano spesso. Passano molti giovani, ma io non sono il padrone. Dico sempre loro di essere indipendenti. Come non voglio stare io alle dipendenze di qualcuno, non voglio che gli altri stiano alle mie. Alla fine è per questo che abbiamo aperto questo laboratorio (lui e Zanaglia, ndr)».

Come siete riusciti a farvi un nome?

«È iniziato tutto dopo l'Accademia. All'epoca non c'era ancora il Ponte di Ferro e non volevamo lavorare per qualcuno. Eravamo anarchici. Abbiamo quindi incontrato un imprenditore, Franzoni, che ci ha lasciato questo spazio. C'era solo . una capanna. Non è stato facile, perché non ci conosceva nessuno, non avevamo storia. Quindi all'inizio finivamo i lavori che le macchine di Pietrasanta lavoravano. Finché un giorno abbiamo incontrato Giuseppe Penone che provò a farci fare (quei) lavori di pelle incisa nel marmo. Ci siamo trovati in undici in una capanna di un metro quadrato a lavorare, mentre fuori diluviava. Da lì è nata la voce “i ragazzi hanno il laboratorio”. Le capanne così sono diventate due, le commissioni aumentavano e siamo arrivati a oggi».

Un esempio di successo, quindi. Cosa si sente di dire alle nuove generazioni?

«Di non mollare, perché Carrara non tifa per te. Soprattutto se vieni da fuori».

In che senso?

«Nel senso che vieni a Carrara, ti fai un nome fuori ma qui no, perché i carraresi hanno la tendenza a sminuire il lavoro degli altri: ad esempio, prendere al balzo la tecnologia ed essere etichettato come quello che ha sciupato la cultura del marmo».

Lei passa la maggior parte del suo tempo qui tra le cave. Non si sente isolato?

«Durante l'Accademia “vivevo la notte” di Carrara, che all'epoca era molto più viva. Ma poi, trovi la pace, non hai più bisogno di festa e ciò di cui hai bisogno è stare qui davanti a questo panorama (e indica il cielo diventato viola per il tramonto, ndr). A me piace molto».

Non la preoccupa ad esempio l'inquinamento atmosferico? Le ruspe, la marmettola, i camion..

«Non so se sia peggio Carrara o Milano. Forse qui c'è più vento».

Diceva che una volta Carrara era più viva?

«Diciamo che adesso si sta perdendo la tradizione carrarese. Non so se ci siano ancora posti come il circolo Sene sotto via del Plebiscito (adesso chiuso, ndr): polpette fritte, baccalà, una chitarra appoggiata al muro, quattro strimpellate, quattro chiacchiere e a letto felici. Questa è Carrara: o la ami o la odi. Molti sono scappati a gambe elevate».

Cosa li ha fatti scappare?

«Se vieni qua per crescere come artista, non trovi spazio e devi cambiare città; andare a Milano, New York, Londra».

Fantiscritti è la zona dei tour alle cave. Vengono turisti?

«Sì molti, da tutto il mondo. Soprattutto l'estate. Vengono e si portano via un pezzettino di marmo, si buttano nel cassone dei detriti per portarsi via il pezzo più grosso, perché vedono un panorama diverso, mozzafiato. Non lo vedono certo tutti i giorni».

Però vengono alle cave e poi se ne vanno...

«Sì perché Carrara non offre niente. Quello che mi fa arrabbiare è che Pietrasanta è riuscita a costruire un teatrino, una pantomima. Mi capita spesso di sentir dire, l'ultima volta da un gallerista indiano: “Ah, Carrara! Vicino a Pietrasanta”. E invece “no”, dico io, è Pietrasanta ad essere vicina a Carrara. Le cave sono qui, la storia è qui. Pietrasanta si è sviluppata dopo. Inoltre Carrara avrebbe un centro storico bellissimo».

Ma cade a pezzi..

«Ci dicono che non hanno soldi per ristrutturarlo, ma forse il motivo è semplicemente che non li sanno gestire. Anche gli stessi industriali del marmo dovrebbero mettersi un po' la mano sulla coscienza e lasciare qualcosa alla città. A volte penso: il marmo dà alla testa. Sembra che nessuno voglia vedere cosa potrebbe diventare una zona come questa, a livello turistico, a livello di risorse. In Italia non c'è niente: non c'è l'alluminio, non c'è il gas, non ci sono le miniere d'oro. C'è il marmo, che dovrebbe essere una risorsa nazionale, e vederlo gestire così fa male. Ad esempio: i finanzieri potrebbero verificare se c'è qualcuno che detiene un mappale che ostacola la lavorazione di altri. Succede infatti che qualche imprenditore usucapisca un mappale perché prevede che tra qualche anno spunterà una cava da quelle parti e così le si impedisce di buttare i detriti in quella zona. Ma come è possibile che si possa fare tutto questo su un bene comune?»

Lei ha due figlie; è contento che crescano qui?

«Sì, certo. Poi spero facciano le valigie e se ne vadano a vedere cosa c'è nel mondo».

Per tornare qui?

«Se il bagaglio è pieno, perché no».

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