Marjan Pepa, chi è l’uomo che ha confessato di aver sparato all’amico a Lunata nel piazzale della cartiera: «Ora voglio pagare»
Singolare l’atteggiamento dell’autotrasportatore che, la mattina di mercoledì 8 gennaio a meno di 24 ore dal delitto del connazionale, si presenta spontaneamente alla caserma dei carabinieri e si autodenuncia con una frase sibillina: «Sono io la causa della morte di Artan e adesso voglio pagare»
LUCCA. È rinchiuso in una cella del penitenziario di San Giorgio con l’accusa di aver ucciso tra le 18,30 e le 19,30 con un colpo di pistola alla testa l’ex amico Artan Kaja, 52 anni, origini albanesi, per tutti “Tony” titolare di una piccola ditta di movimentazione merci impegnata in una delle più importanti aziende della Piana, la cartiera Smurfit Kappa in via Pesciatina a Lunata. Era trascorsa la mezzanotte di giovedì 9 gennaio quando le porte del carcere si sono spalancate per Marjan Pepa, 52 anni, origini albanesi, autotrasportatore residente a Capannori. Nei suoi confronti il sostituto procuratore Lucia Rugani, sulla base degli elementi raccolti dai carabinieri del nucleo investigativo, ha emesso un fermo d’indiziato di reato con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. E nella mattina di sabato 11 gennaio nei confronti di Pepa è stato disposto dal giudice delle indagini preliminari Simone Silvestri l’interrogatorio di garanzia a cui parteciperà anche il legale del camionista, l’avvocato Mara Nicodemo. In quell’esame che si terrà nella casa circondariale – sempre ammesso che il presunto omicida non ritenga necessario di avvalersi della facoltà di non rispondere come ha già fatto di fronte al pubblico ministero titolare dell’indagine – si chiariranno meglio i contorni in cui è maturato un delitto che, almeno nelle prime 48 ore, gli inquirenti avevano etichettato come “malore” o “incidente sul lavoro”.
La pistola non si trova
Singolare l’atteggiamento dell’autotrasportatore che, la mattina di mercoledì 8 gennaio a meno di 24 ore dal delitto del connazionale, si presenta spontaneamente alla caserma dei carabinieri e si autodenuncia con una frase sibillina: «Sono io la causa della morte di Artan e adesso voglio pagare». Passano ore e lui continua a parlare in modo sconnesso alternando frasi senza senso ad altre di senso compiuto. Addirittura a un certo punto si sente male e viene accompagnato al pronto soccorso. All’inizio viene preso come un mitomane o come una persona che cerca di depistare. Nella serata di mercoledì la decisione, presa di concerto con il magistrato, di far nominare al soggetto un avvocato d’ufficio. I carabinieri iniziano a districare la matassa. Sapendo che Pepa conosce bene i luoghi del crimine individuano il tragitto percorso dall’autotrasportatore per eludere le telecamere di sorveglianza e posizionarsi in una zona buia e poco accessibile scavalcando il muretto che confina tra l’azienda e il cimitero di Lunata. I rilievi della scientifica sul posto hanno esito positivo. Ci sono tracce, ma non c’è l’arma del delitto. Pepa si chiude a riccio, non ricorda, non fornisce ulteriori elementi. Appare stanco, incapace di reggere all’interrogatorio ripetendo come un automa «Voglio pagare per ciò che ho fatto». E, soprattutto, sino al pomeriggio di venerdì 10 gennaio la pistola e l’ogiva non si trovano. Lui non ricorda dove ha gettato il revolver. E nella grande cesta per la carta – che si trova poco distante dal ricovero del muletto della vittima titolare dell’impresa individuale “Tony Service” che aveva il compito, come terzista, di movimentare il pallet – pare non esserci traccia.
Il movente
Gli inquirenti si concentrano sui rapporti interpersonali tra i due connazionali. Inizialmente improntati sull’amicizia tanto che Artan Kaja aveva ospitato a casa sua Marjan Pepa che era in difficoltà economica e, stando ad alcune voci raccolte dagli inquirenti, lo aveva persino aiutato a trovare lavoro come autotrasportatore in una ditta ligure. Con il passare del tempo però i rapporti si erano raffreddati. Pepa provava invidia per il coetaneo che aveva un posto importante e una bella famiglia. C’era stato qualche pesante apprezzamento fatto alla consorte dell’imprenditore e sembra infine che, la scorsa estate, i due sarebbero venuti alle mani durante uno scarico di pancali dal camion condotto dall’autotrasportatore albanese. Infine, nel racconto, confuso e poco chiaro, il presunto autore del delitto avrebbe incolpato “Tony” del suo licenziamento dall’azienda di autotrasporto in cui lavorava. Un risentimento covato per mesi che avrebbe scatenato un insensato desiderio di vendetta. Con la folle decisione di armarsi e sparare nell’oscurità un colpo di pistola in testa all’ex amico.