Iaia, violentata e uccisa 11 anni fa a Castagneto. La mamma: «Il dolore e la rabbia sono immutati»
Sara Cariano è la madre di Ilaria Leone, per lei ha creato un’associazione: «Ogni cosa, ogni profumo, ogni gesto, mi rammenta la mia bimba, e saperla sola, sottoterra, al freddo, è uno strazio continuo»
Cosa resta dell’amore per una figlia dopo undici anni dalla sua morte? Una morte violenta, inspiegabile, impensabile?
«Resta tutto. Non c’è nulla di immutato. Il dolore è lo stesso anche se dopo i primi giorni, in cui l’incredulità si unisce alla disperazione e alla rabbia, si spera che quella fitta che sembra spezzarci il cuore si attenui un po’. Cosa che non avviene per tanto tempo, anche se la vita va avanti lo stesso». Parla a raffica Sara Cariano. 62 anni, separata, mentre ricorda la figlia Ilaria Leone (per tutti Iaia), 19 anni, dolce, allegra, generosa, molto amata dai coetanei e non solo. E racconta di una creatura solare, che sprizzava voglia di vivere da tutti i pori e che il suo assassino, il senegalese Ablaye Ndoye, 35 anni, in carcere con la condanna all’ergastolo, la sera del primo maggio 2013, senza provare un minimo di pietà, ha violentato e torturato, lasciandola poi agonizzante sotto le frasche di un’oliveta, a Castagneto Carducci, dove la famiglia di Ilaria, di origini calabresi, vive da tempo e dove la ragazza lavorava nel ristorante “La Gramola”.
«Ogni cosa, ogni profumo, ogni gesto, mi rammenta la mia bimba, e saperla sola, sottoterra, al freddo, è uno strazio continuo», confida Sara, spiegando che lei prima lavorava come cuoca, ma che, dopo la morte della figlia, ha tirato fuori dal cassetto il diploma di insegnante, partecipando a un concorso e vincendolo.
«Mi sono così trasferita a Empoli dove insegno in una scuola materna, anche se ogni weekend end torno a casa, perché mio figlio Mattia, che all’epoca della tragedia aveva solo 23 anni e per proteggermi si è preso su di sé tutto il carico – compreso il riconoscimento del corpo della sorella - ha ancora bisogno di me».
«Insegnare ai bambini della scuola materna - confessa la Cariano - mi aiuta tanto. Loro mi tengono viva, me li abbraccio e in ognuno di loro vedo un po’ di mia figlia. A Empoli condivido un appartamento con delle ragazze e anche questo mi dà un po’ di sollievo. Ma i ricordi tornano sempre. Mi basta incontrare una persona che conosceva Ilaria, o andare in un luogo dove lei era stata e tutto riaffiora. Ogni oggetto, ogni foto, ogni particolare, mi riporta alla mente la mia Iaia. Vedo i suoi occhi e quel neo in faccia che mi piaceva tanto, e a volte vorrei tirar fuori le foto dalle cornici per farle vivere. È una tortura continua. Mi addormento pensando a lei e mi sveglio pensando a lei. Non voglio e non posso dimenticare, così annoto su un quaderno ogni cosa che mi viene in mente: quel grembiule troppo grande che indossava a scuola e la faceva sembrare minuta, il suo modo di parlare, di chiamarmi “madre” invece che mamma; le mani che metteva fra i miei seni quando aveva paura e veniva a dormire nel lettone, dicendo che il mio calore la tranquillizzava».
«Pensare a quello che è accaduto e sapere che non è un incubo ma una maledetta realtà - confida la Cariano - è un tormento che inizia all’alba e aumenta sempre più durante la giornata. La gente tentando di consolarmi mi dice: “In fondo ti è rimasto un bravo figlio”. Ma io rispondo che sì, Mattia è bravissimo e mi protegge, non vuole che pianga, non vuole che sia triste, mi adora. Ma un figlio, pur se meraviglioso come il mio, non potrà mai sostituire quello che non c’è più».
In questa vicenda le sono stati vicino in tanti, come le donne che l’hanno aiutata a fondare l’Associazione Iaia, ma c’è chi invece ha fatto qualcosa che l’ha offesa? «Le donne dell’associazione sono meravigliose e mi sono venute incontro fin da subito con il loro affetto. Però c’è anche chi ha sentenziato che avrei dovuto stare più vicino a mia figlia, criticando il mio modo di essere madre. Ma io lavoravo, Ilaria era grande e lavorava anche lei. L’ho tenuta sotto una campana fino a quando ho potuto, però poi ho dovuto lasciarla libera. Non era giusto starle addosso, anche se io stessa adesso mi faccio tanti sensi di colpa per non esserla andata a prendere al lavoro quella sera, perché forse l’avrei salvata».
Iaia, l’associazione che porta il nome di Ilaria Leone, nata dieci anni fa, è anche un acronimo (sta per Ilaria associazione impegno antiviolenza). Organizza incontri pubblici, ha uno sportello di ascolto, promuove iniziative contro la violenza di genere.
C’è stato un episodio particolarmente grave? «Sì, un episodio secondo me molto offensivo. Lo ha provocato un membro dei 5 Stelle, dopo un flash mob che abbiamo fatto con il sindaco presente, scrivendo su Facebook: “L’amministrazione comunale confonde l’omicidio con una resa di conti”. Ma quale resa dei conti dico io? Picchiata, violentata, lasciata morire senza pietà! Anche il più delinquente dei delinquenti non meritava una fine così. La cosa mi ha fatto davvero male e sono andata subito da questo “signore” imbestialita. Poi ho chiamato anche Grillo per informarlo. Ero disgustata, non mi aspettavo tanto cinismo di fronte a un dramma così disumano».
Oggi, a distanza di anni, Sara non vorrebbe vedere l’assassino di Iaia per capire se è pentito, se prova rimorso?
«A volte ci penso ad andare da lui, ma poi ricordandomi che durante il processo ha continuato a sghignazzare, nonostante lo avesse ripreso anche il giudice, mi dico che probabilmente non si è mai pentito e che non merita neppure che io gli parli. Ha avuto l’ergastolo e questo mi basta. Mia figlia non me la ridà nessuno, ma lui deve stare tutta la vita a marcire in galera».