Addio Bruno Lenzi: il porto di Livorno, l'odissea giudiziaria, l'arte e il gallo Pippo. «Ora ha trovato pace»
Aveva 87 anni. Fino al 2007 presidente di Porto 2000: poi è stato travolto dall'inchiesta. Nelle lettere al Tirreno la voglia di riscatto: «Io e la mia famiglia siamo stati sbriciolati al punto che oggi, che tu ci creda o no, siamo sul lastrico»
LIVORNO. «Sognava di andarsene da innocente. Ma non ci è riuscito. Forse adesso avrà trovato la pace che cercava». Lo ripete nel giorno del dolore, la moglie Luana, mentre alla camera ardente saluta il marito Bruno Lenzi per l’ultima volta, tra amici di famiglia e vecchi dipendenti della Porto 2000 che non avevano dimenticato il loro presidente: «Ci voleva bene e noi ne volevamo a lui – dice una di loro trattenendo le lacrime – . Con me è sempre stato buono. E non lo posso scordare». Lenzi, scomparso a 87 anni, manager portuale e imprenditore (aveva fondato la RaRi), il perdono non lo cercava, lo pretendeva. Lo inseguiva dopo la sentenza – mai accettata – che nel settembre 2011 gli aveva cambiato la vita, soprattutto per la successiva confisca dei beni: case e opere d’arte in primis. E da allora dimostrare l’onestà perduta era diventata una ragione di vita. «Certe volte – prosegue la moglie – eravamo a letto, si alzava e andava alla macchina da scrivere e ci rimaneva per ore. Io gli dicevo: “Bruno vieni a letto”. Ma lui non ne voleva sapere: era sicuro di essere stato vittima di un complotto».
Diverse di quelle lettere le inviava al Tirreno. Scriveva al cronista il 2 ottobre 2021: «Mi devi scusare se continuo a tediarti con le mie problematiche. Voglio solo ricordarti che da oltre tredici anni, per queste problematiche che potrebbero essere definite con termini ben più pesanti e reali, io e la mia famiglia siamo stati letteralmente sbriciolati al punto che oggi, che tu ci creda o no, siamo sul lastrico, tanto che non riusciamo ad arrivare a fine mese». E ancora: «Tu potrai dire: ma a me cosa me ne frega. E avresti ragione. Io però ho bisogno e necessità, e farò tutto quanto è nelle mie possibilità – nella correttezza che ha sempre contraddistinto la mia persona – per da questo incubo la mia famiglia». Con la stessa frequenza con la quale scriveva e telefonava al giornale, si rivolgeva ad avvocati, magistrati e tribunali tanto che per recuperare le quote di RaRi oggi è parte civile in un procedimento penale.
Ma in mezzo a quella adissea che per Lenzi era diventata un’ossessione, usciva anche l’altra faccia di Bruno. Quella di uomo elegante, con la battuta pronta, incline al doppio senso che profumava di un altro tempo. Di un altro secolo. Ma anche di preparazione del sistema portuale che lo aveva portato a una carriera brillante, fatta di successi: al vertice di Porto 2000, società che tutt’ora gestisce il traffico passeggeri, tra il 1999 e il 2007, e alla nomina di commissario dell’Authority. «Il porto – diceva in una visione liberale – è un bene demaniale che appartiene alla città». Ricorda Bruno Crocchi direttore della società all’epoca della scandalo. «Oggi perdo un amico a cui mi legavano stima e affetto. Ma la portualità perde un manager capace, un visionario che era riuscito a portare lo scalo di Livorno ad avere un traffico passeggeri da record. Cosa mi ha lasciato? Quando penso a Bruno mi viene in mente la massima: “Vivi come se dovessi morire domani e pensa come se non dovessi morire mai”. Lui era questo».
Tra le sue passioni una era sopra le altre: l’arte. In particolare la pittura. Per capirlo bastava entrare nella casa di San Jacopo, poi finita all’asta: quadri di grandi artisti, sculture, sedie, mobili e poltrone di design. Mario Schifano era uno dei suoi artisti preferiti. Ma non disdegnava nemmeno Turcato e Botero. Dell’amico Mario Madiai aveva addirittura settecento opere: una parete di rose che sbocciavano ogni giorno.
«Era fissato con l’arte – ricorda la moglie – quando ci siamo sposati i nostri amici andavano in vacanza. Io gli dicevo: “Bruno, andiamo anche noi a fare un girino da qualche parte”. Ma lui mi rispondeva: “Ma dove vuoi andare, si sta tanto bene a casa”. E con quei soldi comprava opere d’arte».
Per descrivere il lato autoironico e divertente di Lenzi ci sono però due episodi che non possono essere raccontati. Il primo riguarda il gallo “Pippo” che il manager teneva in giardino e trattava come un animale domestico, tanto che quando morì lo volle sotterrare come un cristiano.
L’altro riguarda i giorni drammatici in cui Lenzi, siamo nell’aprile 2012, venne portato in carcere perché durante un controllo non era a casa. «Come sono stato in carcere? Benino – rispose quando uscì – Per passare le giornate giocavamo a carte, ma purtroppo io non sono capace, quindi il mio compagno non faceva altro che arrabbiarsi per come scartavo». E non si sa come sorrideva dimenticando per un attimo il resto.