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L'intervista

«Volevo venire qui»: Infantino e il sogno della maglia viola

di Francesca Bandinelli
«Volevo venire qui»: Infantino e il sogno della maglia viola

Il rinforzo preso dal Rosario si racconta «Lavoro per vincere: anche con la Nazionale»

23 agosto 2023
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FIRENZE. Ha un sorriso capace di contagiare, la sfrontatezza di un ragazzino, 20 anni all’anagrafe, e un bagaglio pieno, soprattutto di sogni. Gino Infantino (solo un omonimo del presidente della Fifa) ha lasciato la sua Rosario con un coro ad accompagnarlo, «Vai, cogli l’attimo e scrivi la tua storia». È arrivato a Firenze, negli anni diventata una colonia argentina, con in tasca l’eredità morale della capitale del fútbol di là dall’oceano, la città dove sono nati gli ultimi campioni del Mondo, Leo Messi e il “fideo” Di Maria. E pure lui, Infantino.

La Fiorentina lo seguiva da tempo, tra osservatori andati a vederlo giocare e dirigenti pronti a mettere in scena un autentico blitz pur di non lasciarselo scappare. Centrocampista duttile, capace di muoversi ovunque, dalle corsie più laterali lungo tutta la linea: lì nel mezzo, i posti li ha ricoperti un po’ tutti, da mediano a mezzala, da esterno di sinistra a rifinitore. Gli basta giocare, muovere il pallone, correre e regalare felicità. Il calcio ce l’ha nelle vene, lì dove scorre anche sangue nostrano. Ha il doppio passaporto, argentino e italiano, ma quando si parla di Selección e di campioni si illumina. E dalla sua terra ne sono arrivati tanti. Ci sono quelli che, come disse Victor Hugo Morales, vengono da altri pianeti - «Messi e Maradona: come fai anche solo a pensare di potergli lontanamente assomigliare? Sono fenomeni, punto» - e ci sono quelli di cui, per pudore, Gino ne sussurra solo il nome. Come Batistuta, perché i campioni vanno rispettati, fa capire: anche solo nominarli troppo spesso non sta bene. E continua a parlare, senza tirarsi indietro, veloce come sa fare in campo col pallone. Il suo debutto, a Marassi, stavolta è stato bellissimo tre volte: «Perché lo sognavo, perché abbiamo strappato i tre punti, la cosa più importante, e poi perché ho sentito il calore della gente». Non come la prima volta in Argentina, contro il Banfield, in uno stadio desolatamente vuoto per la pandemia. Infantino va veloce. E lo ripete ancora: «Conta solo vincere, scrivere la storia, regalare emozioni alla gente. E a me piace farlo».

Gino Infantino, le sue origini italiane dove affondano le radici?

«In Sicilia. Il nonno di mio papà è nato lì. Poi alcune circostanze di vita hanno portato i miei bisavoli ad emigrare. Sono nato a Rosario e ho anche il passaporto argentino».

Qual è il suo soprannome in Argentina?

«In realtà, non me lo hanno dato. Lo hanno fatto i miei compagni qui, i connazionali. Mi chiamano “gatto”. In Argentina si dice che i rosarini siano come gatti, lesti. E mi piace provare ad esserlo».

Che calciatore è Infantino?

«Voglio vincere, sempre, a prescindere. Sono molto competitivo, fa parte del mio dna e non mi accontento. Queste due caratteristiche le ho cucite addosso».

E tecnicamente come si descriverebbe?

«Mi piace mettere in mezzo palloni, far giocare la squadra, ma quando si tratta di difendere e garantire maggiore copertura al gioco lo faccio con la stessa determinazione».

Dove crede di dover migliorare? 

«Intanto sulle palle inattive, sto lavorando per crescere giorno dopo giorno. Sono giovane, faccio un passo alla volta».

La passata stagione la Fiorentina ha conquistato due finali: ha visto le partite?

«Ho visto quella in Coppa Italia, contro l’Inter. È stato un match molto duro, sotto il profilo fisico, ma il calcio è questo. Tanto bello quanto spietato: si vince e si perde. I miei compagni sono stati protagonisti di una stagione importante, in Coppa nazionale e in Conference. Tocca a tutti noi, adesso, cercare di non perdere l’abitudine».

E lei è pronto a dare il suo contributo in questa stagione?

«Si, chiunque di noi ha come obiettivo quello di vincere e laurearsi campione. Cresceremo, siamo soltanto all’inizio della stagione».

Che cosa le hanno detto i dirigenti della Fiorentina per convincerla a dire sì a questo progetto?

«In realtà, non hanno dovuto convincermi (ride, ndr). Quando mi hanno detto dell’opportunità di arrivare in Italia, ho sperato e fatto in modo che la trattativa si chiudesse presto. Sono molto felice di esser qui».

Lei è stato osservato molto da vicino: responsabilità ulteriore?

«No. Il mio agente me lo aveva detto che ero finito sotto la lente ma, anche per carattere, sono sempre stato molto tranquillo, ho pensato solo a fare il meglio di quanto nelle mie possibilità, dentro e fuori dal campo, senza pressione né emozioni particolari. Credo che, quando uno segue il suo istinto, le cose diventino fluide in un istante. Sono stato accolto molto bene: ho parlato con il direttore generale e con il presidente. Qui per me è tutto nuovo, ma molti mi hanno dato consigli preziosi e ne farò tesoro. Respirare fiducia è importante, specie alla mia età. Sono concentratissimo e questo è fondamentale, soprattutto adesso: devo imparare a conoscere il calcio italiano, la Serie A, poi la Conference League. Qui ogni cosa è nuova, dall’allenamento alla vita di squadra, ma io sono pronto».

La Fiorentina, intanto, parla sempre di più argentino. 

«Sì, dalla storia passata a quella di oggi. Qui sono transitati campioni veri, anche per questo è un onore. È scontato fare il solito nome, parlo del grande Batistuta. Lo dico sottovoce: è un idolo, punto. Sì, Firenze è una succursale argentina e io sono un argentino in più».

Cosa ricorda del suo debutto tra i grandi contro il Banfield?

«Fu particolare, eravamo senza pubblico per la pandemia. Era novembre, Kily Gonzalez mi ha lanciato, facendomi realizzare un sogno. Da quel momento, il mio obiettivo è sempre stato quello di mettere insieme più minuti possibili».

Lei è nato a Rosario, città di campioni. È pronto per essere il prossimo?

«A Rosario sono nati Messi, Di Maria, gli ultimi campioni del mondo, ma non solo. È un privilegio essere cresciuto lì, in una città dove il calcio è vissuto in maniera viscerale. Non so se sarò il prossimo campione, però so che non mancheranno mai lavoro e attenzione. A Rosario si vive il pallone con euforia, adrenalina: è una città popolosa e sono tutti, proprio tutti, “malati” per il calcio».

Che cosa le hanno detto i suoi genitori e gli amici prima di partire per Firenze?

«È successo tutto velocemente, di questa trattativa erano al corrente solo i miei familiari. Quando poi è stata ufficializzata, chiunque mi ha detto che questo sarebbe stato un grande passo per la mia carriera, ma solo il primo».

Quando l’Argentina è salita sul tetto del Mondo che cosa ha provato?

«Quella sera è stata incredibile, magica. Io ero a Rosario e sono stato a festeggiare al Monumento nazionale alla bandiera (lì dove fu subito issata una maglia albiceleste numero 10 gigante, ndr): è stata una “locura”. L’Argentina esplose letteralmente di gioia, non lo dimenticherò mai».

Questa è la sua prima esperienza lontano dalla sua terra: è arrivata al momento giusto?

«Fin da piccolo, ho sempre sognato di giocare in Europa, nei campionati che vedi da bambino in tv. Il fatto è che fin quando resti spettatore non riesci a renderti conto di quanto grande sia una tale ambizione. Adesso che ho questa occasione la voglio sfruttare, farò di tutto per non sprecarla. Spero che sia l’inizio di una carriera importante».

I suoi ex allenatori, Tevez e Gonzalez, che hanno conosciuto il calcio italiano, cosa le hanno detto?

«Con Carlos non ho avuto modo di parlare, ma con Cristian si, mi confronto molto spesso. Mi dà molti consigli, mi ha detto che avrei dovuto capitalizzare al massimo questa opportunità, assorbire tutto. Mi ha lanciato in campo e mi ha fatto crescere. Tanto, sotto tutti i punti di vista: gliene sono grato».

Invece Vincenzo Italiano che allenatore è?

«È un allenatore entusiasta, vive il calcio in maniera totale, con intensità ed è attento a tutto: lo si percepisce nella cura dei particolari. I dettagli fanno la differenza. Stiamo lavorando e la speranza è quella di conquistare quegli obiettivi che ci siamo prefissati».

Infantino a chi si ispira?

«Non credo di avere un modello di riferimento, non penso a “copiare” dagli altri quanto a crescere e ad essere me stesso. Poi, nel calcio ci sono i campioni, che vengono da un altro pianeta: quello che riesce a loro non è né scontato né per tutti. Messi è come Maradona: lo guardi, anche solo nei movimenti, e capisci che, per quanto tu possa studiarlo, a quel livello non ci arriverai mai. È un privilegiato. E tu puoi solo ammirarlo».

Qual è il suo sogno sportivo?

«Giocare un Mondiale, diventare campione del mondo. Questo non ha prezzo. Lavorando ci si può riuscire. Con la Fiorentina è esattamente lo stesso, vorrei vincere, sollevare un trofeo: Coppa Italia, Conference League, scalare la classifica. Io ci credo. Conta solo macinare punti, scrivere la storia, regalare emozioni alla gente. E sì, sarebbe bellissimo conquistare qualcosa con il mio club».

Che cosa ha pensato quando ha debuttato, a Marassi?

«La squadra si è resa protagonista, pronti via è stata una partita importante, subito indirizzata nella maniera giusta. Abbiamo mosso velocemente il pallone, dettato il ritmo come ci piace fare. Sono stato felice di mettere insieme i primi minuti, mi sono sentito a mio agio, con grande voglia di vivere quegli istanti. Ma ripeto, contava vincere».

Che le ha detto Beltrán?

«È il mio vicino di posto nello spogliatoio (ride, ndr). Abbiamo parlato nei nostri primi giorni in Italia, anche se lui è arrivato qualche giorno più tardi. L’emozione è stata forte per entrambi».

A Genova, ha avuto modo di sentire il sostegno dei suoi nuovi tifosi, passionali pure loro.

«Mi ero goduto il loro abbraccio già nell’amichevole giocata al Franchi, sono veraci, vivi. Mi piacciono. Il calcio è questo, partecipazione, vita. In ogni angolo del mondo, lo si vive in maniera diversa, ma la sostanza non cambia, è passione: questa è l’essenza del calcio. E sono certo che insieme ci divertiremo, io ce la metterò tutta».

Il suo numero di maglia, il 19, ha un significato?

«Ho cominciato con il 27 nel Rosario, ma quando ero più piccolo avevo il numero 19 (come il suo giorno di nascita, ndr): lo sento un po’ mio. Non ho avuto dubbi a sceglierlo».

Che partita si aspetta contro il Rapid Vienna?

«Difficile, anche perché delle due squadre, resterà solo una dentro. E noi non vogliamo rischiare. Attaccheremo i loro punti deboli per provare a dett are legge: l’obiettivo è riuscirci subito».

Il “gatto” rosarino schizza via, lo aspettano in campo. Studia da campione e per vincere, lo ha già imparato, non si può certo perdere tempo.

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