Il Tirreno

Empoli

Renato Pesce, ex deportato: "Di quei mesi ricordo la fame"

Viorica Guerri
Renato Pesce, ex deportato: "Di quei mesi ricordo la fame"

91 anni, monsummanese di adozione, ha scritto un libro sulla sua vicenda: «L’ho fatto perché voglio che i giovani sappiano e perché l’orrore non si ripeta»

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EMPOLI. Al Circolo Arci “O. Ristori” è stato presentato il libro “Il ragazzo che visse nel lager”(Edizioni Atelier) alla presenza dell’autore novantunenne Renato Pesce, monsummanese di adozione, davanti a un pubblico costituito anche da giovani di due classi quinte dell’Istituto Ferraris Brunelleschi di Empoli. Intervistato da Cecilia Maffei, l’autore ha ricostruito le vicende che, a 17 anni, nel luglio del 1944, lo portarono a vivere l’esperienza della deportazione in Germania come lavoratore coatto in una azienda chimica a Lewerkusen e come internato a Rheinfelden al confine con la Svizzera.
 
L’episodio della deportazione fa da spartiacque e segna un ”prima” e un “dopo” nella sua vita. Come era la sua vita prima?
 
«Ero un ragazzo qualunque, rispettoso, che si preparava al Ginnasio, con la prospettiva di diventare ingegnere navale. Vivevo sereno con i miei genitori e le mie tre sorelle. Lasciammo la Liguria, bombardata, e ci rifugiammo, come sfollati, a Bagnasco, in provincia di Cuneo, nella casa dei nonni. Solo che purtroppo la guerra ci seguì anche qui dove soldati con divise repubblicane rastrellarono tutti gli uomini validi del paese. Mio padre era rimasto a Genova dove lavorava come dipendente delle Ferrovie dello Stato. Io invece, insieme a tanti altri, cominciai il mio viaggio verso la Germania stipato con altri trenta, in un vagone di carri merci chiuso con una sbarra. Era il 27 luglio del 1944».
 
Cosa ricorda di quei mesi nel lager?
 
«Di quei mesi ricordo la fame. Il razionamento, lo chiamavano. Ci davano una brodaglia di tè a colazione e un unico pasto a pranzo di cipolle o rape, ogni tre giorni una pagnotta che non bastava mai. Quando sono tornato a casa pesavo 55 kg. In 12 giorni a casa ho ripreso sei chili. La nostra condizione di lavoratori chimici era meno dura di chi lavorava nelle miniere. Tanto che questa esperienza, io dico, l’ho vissuta e non subita. Certamente ci mancavano il cibo e la libertà, ma io avevo fame di realizzare la mia vita».
 
Cosa prova quando ripensa a questa esperienza?
 
«Non provo odio per nessuno. I tedeschi sono un popolo come un altro. Ripeto: sono stato fortunato, anche perché ho visto in tante persone dell’umanità. L’ingegnere Mayer mi aveva scelto perché assomigliavo tanto a suo figlio che era al fronte in Russia e una volta, con la scusa di dovere fare dei lavori a casa, mi portò da sua moglie per farle vedere questa somiglianza. Mi offrirono pane e marmellata e la donna mi abbracciò. Nel sentire il suo buon profumo di sapone, mi ritornò a mente l’odore di mia madre ed ebbi la strana consapevolezza che l’avrei rivista».
 
E così è stato…
 
«Sì, sebbene quando, dopo tante traversie riuscii a ritornare a casa, feci fatica a riconoscere mia mamma: in quei mesi era invecchiata e aveva tutti i capelli bianchi per il dolore. Dopo la guerra mi sono diplomato. Ho fatto l’operaio e svolto tanti lavori e mi sono sposato».
 
Perché a 91 anni ha sentito il bisogno di scrivere questo libro?
 
«Non l’ho fatto prima per pudore. Ho sempre scritto racconti, è un hobby, ma mai sulla mia vicenda. Adesso volevo lasciare un ricordo alle giovani generazioni, soprattutto a mio nipote Lorenzo, che tra l’altro ha curato la copertina del libro. È giusto che i giovani sappiano perché non succeda più!».  
 
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