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Quando Totò poteva diventare “l’imperatore di Viareggio”

di Chiara Graziani
Totò a Viareggio con il viareggino Mario Monicelli
Totò a Viareggio con il viareggino Mario Monicelli

Secondo una delle biografie del principe De Curtis sarebbe stata la massoneria a convincerlo ad abbandonare la Perla del Tirreno per fare proseliti a Capri

01 luglio 2024
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«Come si vede che sei straniera» disse Totò intenerito pulendo la guancia unta della giovanissima compagna che, non sapendo gestire spaghetti e forchetta, s’era decorata viso, bocca e decolletè. «È che in Toscana mangiamo la minestra…» si scusò Diana strofinandosi, impacciata, le adorabili fossette. Quindicenne, bellissima, appena fuggita da un collegio fiorentino per seguire il ben più anziano “guitto napoletano”(parole della madre), Diana Bandini da Firenze non sapeva che quello di non padroneggiare la posata dei maccheroni sotto gli occhi di una suocera napoletana, sarebbe stato l’ultimo dei suoi imbarazzi.

Questa storia, infatti, salpa da una sera a teatro a Firenze con un abito prestato, passa per le spiagge di Viareggio e si andrà ad arenare sugli scogli di Capri. Finirà con la rottura fra i due – la bellissima collegiale minorenne e il grande attore che, con comodo, l’avrebbe sposata – e la vicenda si giocherà, anche, fra le due finestre sul Tirreno che, negli anni Trenta e Quaranta, si contendevano, diverse e lontane, il primato di regina degli ozi vacanzieri. Lei, Diana, aveva scelto Viareggio e sfavillava in spiaggia mentre il marito, gelosissimo, la rincorreva con l’asciugamano. Lui, Totò che riempiva i teatri e si preparava al cinema, d’improvviso l’avrebbe dirottata, con la figlioletta, su Capri.

Scelta non scontata. Restare a Viareggio, dove la famiglia De Curtis – Totò, Diana e la piccola Liliana – affittava ogni anno una villa sul lungomare aveva, infatti, senso per un uomo di spettacolo che coltivava la sua carriera. Il leggendario impresario poeta, Enrico Pea, aveva già fatto da attrattore per muse, poeti, guitti di fortuna, scrittori, mattatori, letterati, cantanti. La passeggiata di Viareggio, i suoi caffè, i padiglioni a forma di yacht, erano la scenografia infinita del ballo in maschera di chiunque fosse qualcuno nel mondo dell’arte. Totò avrà senz’altro scambiato il saluto, negli abiti di lino da pomeriggio estivo, camelia all’occhiello, con un altro mostro sacro delle scene, Leopoldo Fregoli, l’unico che potrebbe contendergli, ora, il titolo di maschera comica universale se solo avesse afferrato il treno del cinema che ne avrebbe conservato la memoria. Chi passava per Viareggio, in quegli anni, sfilava in scena. Alimentava il mito di se stesso del quale vive l’artista. Pirandello, Rosso di San Secondo, Marta Abba, Marinetti e i futuristi, lo sfortunato e geniale Krimer (Cristoforo Mercati), Ermete Zacconi, Lorenzo Viani, Viareggio era un calderone di vita culturale dove anche i teatri all’aperto contribuivano alla condivisione di un’aura di vitalità che tracimava senza mai dormire.

Totò, per parafrasare un suo imminente film, avrebbe potuto essere l’imperatore di Viareggio. Scelse di essere l’imperatore di Capri e, d’improvviso, ci si trasferì per le vacanze, dopo aver inscenato un’estrazione a sorte. Fu Capri, dunque. Le sue calette magiche ed isolate nell’azzurro ed il chiuso delle ville, paradisi privati e ad invito, dimensione capovolta rispetto all’orizzonte-scenografia di Viareggio. Ma fu anche l’inizio della fine della stralunata storia d’amore iniziata con la fuga sul treno da Firenze a Roma di una quattordicenne in calzettoni. Perché se a Viareggio Diana impersonava la sirena color bronzo in costume “audace”, a Capri, confinata fra la villa di famiglia e quella di un produttore cinematografico, non ebbe scampo alla gelosia del marito.

Ora si apprende, da un’altra biografia del principe De Curtis (che mai abbassò la plebea “d” maiuscola) che la massoneria avrebbe avuto un ruolo nell’addio a Viareggio. Un ruolo, ça va sans dire, occulto. Totò, infatti, avrebbe avuto l’incarico di fare proseliti nelle facoltose tribù degli abitanti delle bianche, esclusive, ville capresi, chiuse come ostriche. Ed avrebbe dovuto iniziare i neo-fratelli “sulla spada”. Una sorta di missionario delle logge che uscivano, sul finir della guerra, da un periodo di persecuzione. Come scrive Ruggiero di Castiglione nel suo “Totò massone”, la missione sarebbe stata introdursi come “un comune villeggiante” e reclutare i pezzi pregiati dei salotti del potere. Ricostruzione suggestiva, magari addirittura perfetta per un film di Totò, con l’espediente comico del sosia plebeo che manda in malora i marchingegni del suo gemello aristocratico e megalomane. L’autore la sostiene con convinzione, ne fa anzi uno degli snodi cruciali per dimostrare che il grande Totò, tutt’oggi adorato a Napoli come una divinità locale, era un iniziato la cui carriera massonica avrebbe spiccato il volo traslocando la famiglia dalla passeggiata alla piazzetta.

Peccato che la presunta missione segreta non lasci traccia nelle memorie di Diana, la moglie fiorentina alla quale il via vai massonico in villa, intenso e caratteristico, non sarebbe dovuto sfuggire. Tanto più che la poveretta sull’isola, non aveva neppure il pretesto dello struscio sottobraccio fino al padiglione Schicchi di viareggina memoria. Se di massoneria si parla in alcune interviste all’ultima compagna di Totò, Franca Faldini, nel diario della Bandini non si coglie un sospiro. Eppure Diana non è avara di dettagli su manie, carattere, vizi e virtù di un uomo che la prese bambina, ci convisse prima, poi la sposò riluttante, e si fece annullare le nozze all’estero per tenersela, non più civilmente moglie, per altri sei anni. Magari volge tutto in positivo, perdona, secondo l’antica regola patriarcale che una donna non critica il maschio alfa avuto in sorte. Però osserva. E racconta tutto. Dalla sera del primo sguardo scoccato dal palcoscenico fiorentino al palco dove la ragazzina splendeva nel vestito rosa della sorella, al tramonto di lui, cieco, anziano e inquieto della morte. Spade e riti nella claustrofobica, per lei, dimensione caprese non ce ne furono. Liti, calunnie, lettere anonime, sì. Ma non altro.

Viareggio, su via Carducci, al bagno Amore, fu per Diana storia diversa. L’estate creava, per lei, la dimensione più vicina a quella di una famiglia stabile avesse mai vissuto. Per lui, che arrivava in spiaggia immancabilmente in completo di lino bianco non erano che “discorsi estivi” . Per lei, in spiaggia con marito e figlia fra ammirazione ed invidia, pioniera del due pezzi, con Totò che la fotografava quando non si dedicava alla bambina, era l’illusione che la vita potesse essere per sempre così: un marito innamorato, una figlia, il viso e i passi di una dea e la sensazione di poter camminare all’infinito lungo una spiaggia bianca che avrebbe potuto srotolarsi fino al bagliore turchese della Promenade Des Anglais. “L’arrivo dell’autunno per me è la stagione più brutta dell’anno”, scriveva in quegli anni Diana.

Dal ‘43, per Diana via da Viareggio fu sempre autunno. E se si guardano due delle foto che la figlia Liliana ha consegnato a Matilde Amorosi, autrice del libro “Malafemmena”, ci si dà una spiegazione plausibile anche dell’abbandono di Viareggio. Nella prima, del ‘35, Diana appare, magicamente in bilico appollaiata in cima a una colonna, abbronzata e scalza, librata sullo sfondo di quella che pare essere una delle ville di via Carducci. Come sia planata lassù non si sa, ma tutto parla di un volo. Nell’altra foto sempre Diana, ma a Capri. Sul solarium di villa Romita, isolata fra cielo e tetto, non vola più. E forse si capisce che in questa storia c’entrano poco le missioni segrete e le iniziazioni “sulla spada”, che pure sarebbero piaciute parecchio a un uomo che, figlio di NN, riuscì a suon di carta bollata a farsi legittimamente dire erede, nientepopodimenoche, del trono di Bisanzio. Il Totò massone che ci viene descritto, del resto, è verosimile quanto – e ci perdoni Totò l’immenso – i titoli nobiliari di cui riuscì ad agghindare la sua onorabilissima storia plebea. Dal marchesato, al principato. Chi scrive ricevette a suo tempo dal Venezuela, dove i marchesi de Curtis emigrarono, l’albero genealogico del casato, insieme a una lettera autografa che smentiva, nelle intenzioni, ogni parentela (e ogni ambizione di succedere, caso mai il problema si riaprisse, al trono di Bisanzio).

La chiave è probabilmente in quelle foto. Antonio De Curtis, gelosissimo, semplicemente, preferì mettere in una bella gabbia una bellissima moglie ed i suoi sogni estivi di libertà. Proprio come il gelosissimo, e sciocco, don Pasquale del film del ‘53, “Un turco napoletano”. Nella realtà fra Totò e Diana, da lì a poco, finì con la vittoria della gelosia che li divise. Ma nei film di Totò, sempre carichi di una saggezza umana prodigiosa, il finale non è mai in mano ai principi, ma solo a Totò e agli umili. Ed è per questo che, sempre, finiscono bene.

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