Quando Borghese tentò di fare il golpe
Era il 1970 il Principe Nero venne a Viareggio e coinvolse avvocati e balneari, Piero Giannotti e anche il poeta Bertoli
di ADOLFO LIPPI
Quarantacinque anni fa Viareggio, ancora una volta, entrò nella storia nazionale.
Prima con la contestazione a “La Bussola” di Focette, poi con il rapimento di Ermanno Lavorini, di conseguenza, anche per le forti scosse provocate dall’«autunno caldo» sindacale, si cominciò a parlare di strategia della tensione.
Il 12 dicembre 1969 era scoppiata a Milano la bomba alla Banca dell’Agricoltura, si fece una gran retata di anarchici (poi risultati estranei), a Viareggio, non all’improvviso, venne a passare così nel ‘70 il principe Junio Valerio Scipione Alfredo Ghezzo Marcantonio Maria Borghese, già comandante della X Mas, unità d’élite della vecchia Repubblica Sociale, insomma quelli di Salò. Borghese aveva fondato nel ‘68 a Roma un suo Fronte Nazionale.
E s’era messo in giro a ricercare e riunire gli ex camerati, con obbiettivo dichiarato di arginare la “marea rossa” montante, instaurare uno Stato autoritario (come per la Grecia dei colonnelli), “salvare l’Italia dal comunismo”. C’è chi disse e dice che Borghese avesse in mente un vero e proprio Golpe, Mario Monicelli vi scherzò sopra con il film “Vogliamo i colonnelli”, interpretato da Ugo Tognazzi, con una partecipazione di Giancarlo Fusco, indimenticato giornalista cresciuto in Versilia.
Fatto che Junio Valerio Borghese riunì all’hotel Royal di Viareggio un gruppo di aderenti. E tra costoro vi erano, nientemeno, l’avvocato Giuseppe Gattai, un principe del foro, il poeta giornalista Raffaello Bertoli, l’imprenditore Piero Giannotti, poi marito di Delia Scala, il commerciante Franco De Ranieri, il proprietario di bagno Amedeo Birindelli. Tutti, più o meno, d’accordo sull’analisi del pericolo che la nazione correva, tutti, però, in disaccordo sulle azioni da intraprendere.
Vado a trovare Raffaello Bertoli nella sua bella casa di Marina di Pietrasanta. È sempre stato un conversatore gagliardo, vivace, un uomo di passioni ed ha la memoria ferma. Dice: «Ma quale golpe! In verità Borghese rastrellava fondi per il Fronte Nazionale. Trovò contributi e quando li ebbe poi svanì nel nulla». Com’è noto Borghese, inseguito dai tribunali per quel fantomatico “golpe”, fuggì poi in Spagna dove, a Cadice poi morì.
Prima però s’era dato un gran daffare anche per l’Italia traversava un periodo storico complicato, c’erano ovunque inquietudini e sommosse, già un generale, De Lorenzo, aveva tentato il «Piano Solo», l’alta borghesia era presa da una vera “isteria reazionaria”, facevano molta paura movimenti quali Lotta Continua e Potere Operaio.
E a Pisa, con Adriano Sofri, i “rossi” avevano già dato violenta prova di sé con l’assalto per il Capodanno del 1968 alla Bussola di Focette. Una vicenda che scioccò l’Italia, ma soprattutto la nostra riviera.
Così Borghese, venuto a Viareggio, venne ascoltato. Egli aveva come braccio destro un noto massese Carlo Benito Guadagni (l’altro braccio “armato” era Sandro Saccucci, poi deputato del Msi), un fascistissimo che in zona si era distinto per aver aderito a Salò, i partigiani gli avevano fucilato il padre, lui s’era imboscato a Roma dove dirigeva un’aziendina di rifacimento facciate. Che si chiamava, appunt. o, la “Facciata”. Era, Guadagni, il raccoglitore dei fondi e il reclutatore degli ex Decima Mas.
Perché e come Borghese venne ascoltato a Viareggio? L’avvocato Gattai, repubblicano storico, con sulla parete dello studio un documento dell’Anpi (l’associazione dei partigiani di sinistra) che lo benemerita, era sempre stato grande amico di Randolfo Pacciardi, livornese, ex ministro della Difesa dei governi centristi, leggendario comandante in Spagna delle brigate antifasciste, però anticomunista viscerale e ardito.
Orbene. Pacciardi, anche lui, s’era allarmato per i venti dell’autunno caldo, le scuole occupate, le debolezze dei governi democristiani. Aveva allora fondato “Nuova Repubblica” e s’era portato dietro, in questo partitino di ordine, l’avvocato Gattai. E con lui il poeta Raffaello Bertoli che già anni prima aveva fondato un proprio gruppo e scritto un libello contro il corrotto regime borghese. A questo gruppo rivoluzionario Bertoli avevano aderito, in Versilia, lo scultore Arturo Dazzi (autore dell’obelisco romano), il poeta scrittore Cristoforo Mercati (Krimer), l’avvocato Sandro Ricci (poi Psiup ed estrema sinistra), il poeta Fulco Sculco, lo scultore Ernesto Tayat ed altri.
Dice Bertoli: «I Servizi erano assai interessati a questa nostra attività culturale e politica. Ma non facevano nulla di illegale».
C’era, tuttavia, parecchia curiosità. E quando Borghese venne al “Royal” il commissario di polizia Vincenzo Scotto sguinzagliò un po’ di informatori. In quei tempi Mario Colzi, repubblicano e agente investigativo privato, circolò parecchio attorno a queste iniziative. Vi fu una riunione presso lo studio Gattai in via Sant’Andrea e le idee di Borghese vennero vagliate. Scoppiò una discussione forte. Gattai scagliò un pugno contro la parete. Lui era legalitario e si defilava. Così Bertoli e Giannotti, che era concessionario della Fiat e amico personale del ministro democristiano Giuseppe Togni. Certo, era stato, il Giannotti, un milite della X Mas, ma non se la sentiva proprio di scendere a menar le mani. Figuriamoci.
Qualcuno, su indicazione del massese Guadagni, profilava di assaltare le Poste e disarmare i carabinieri nella caserma di via Foscolo. Come a Roma i militi della Forestale avrebbero dovuto conquistare la sede Rai di via Teulada. Dice Bertoli: «Una cosa era l’accordo politico. Ben altro un’impresa militare. Eppoi chi ci sarebbe stato dietro? Borghese aveva pochi agganci».
Lo raccontò con ironica bravura Mario Monicelli nel suo film. I golpisti furono quattro gatti, compresi i Forestali che dovevano «calare» da Cittaducale, sopra Rieti. Molti attesero davanti al televisore che Borghese apparisse alla mezzanotte ad annunciare d’aver preso il controllo dello Stato.
Il televisore rimase col solito monoscopio e anche a Viareggio, coloro che aspettavano l’evento, tornarono sconsolati e delusi a casa. Le strade fredde e buie della Viareggio invernale (si era a dicembre), restarono deserte.
Mario Colzi non potè indagare nulla. Tuttavia vi fu anche un seguito. Anzi più seguiti. Poco tempo dopo, nel ‘72 venne scoperto in Valtellina un complotto denominato “La Rosa dei venti”. Lo aveva ideato Amos Spiazzi, un altro militar fellone. Ebbene, durante una persecuzione, spuntò fuori una valigia. Conteneva fucili e il libello scritto anni prima proprio da Raffaello Bertoli e contenente le sue idee focose.
Una sera, mentre Bertoli, entrava al cancello della sua villa a Marina, due, armati di mitra, gli si posero ai fianchi. Dice Bertoli: «Temetti fossero banditi. Mia moglie, Maria Rosa, al balcone urlò, scese, di corsa, i due la spinsero a terra in malo modo. Io spinto su un’auto fui portato al Commissariato e venni interrogato per ore da Scotto. I fucili erano arrugginiti, il libello innocuo. Alla fine, con tante scuse, venni rilasciato e Scotto inviò a mia moglie un fascio di rose rosse».
Viareggio, da tutto questo, rimase una città sconcertata. Così quando venne il filosofo Armando Plebe a comiziare in piazza Margherita (a quei tempi i comizi si facevano nello spazio-parcheggio davanti il Margherita), era il 1972, scoppiò una veemente sommossa (altro che per Matteo Salvini). Si ebbero parecchi feriti. Io che stavo sulla terrazza del cinema Eolo (vi era la redazione de “Il Telegrafo”) vidi un candelotto passarmi sulla testa. Colpì alla gola un amico, Giorgio Valeri, che finì con tanti altri all’ospedale.
Mario Colzi che s’era messo a difendere una ragazza dai manganelli della Polizia, venne brutalmente malmenato. Gridò: «Sono l’assessore alla Polizia». Il manganellatore gli urlò: «Abbasso la Polizia» e continuò a bastonarlo. In quanto al tentato golpe non si ebbe alcun rilievo giudiziario. Merita però rammentarlo, sono passati quarantacinque anni e sembrano ieri.
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