Rossella Elisei, l’endocrinologa livornese: «Una carriera in medicina ma trattata sempre da uomo»
La dottoressa rivela: «In famiglia ho imparato onestà e rispetto. Il momento più brutto? L’incidente in moto di mio marito che l’ha costretto in carrozzina»
LIVORNO. Più che una convinzione, per Rossella Elisei, 66 anni, nata a Livorno ma di origini marchigiane, quella di studiare medicina, è stata sempre una speranza, poiché di famiglia modesta, se avesse scelto una facoltà meno impegnativa, sarebbe stata per meno anni a carico dei suoi genitori. «Mi ero iscritta da principio a matematica – confessa – ma dopo 15 giorni ho capito che non avrei mai potuto continuare. E, con il permesso di mamma e babbo, ho preso la strada che avevo sempre desiderato».
Scegliendo poi di specializzarsi in endocrinologia.
«Sì. Dopo aver frequentato il reparto di Endocrinologia, in qualità di tirocinante, durante il quarto anno di medicina e, in particolare, dopo l’incontro con un grande Maestro come il professor Aldo Pinchera, figura fondamentale per me e per la mia formazione professionale di medico e di ricercatrice, mi sono appassionata a quella branca».
Nella sua famiglia non ci sono mai stati medici?
«No. Mio padre era maresciallo dei carabinieri e mia madre casalinga. Però, oltre a insegnare a me e a mia sorella l’onestà, la cordialità, la gentilezza, il rispetto degli altri e la capacità di esprimere sempre il proprio pensiero, ci hanno fatto capire quanto fosse importante studiare, arrivando almeno fino al diploma. Io ho continuato, dopo il liceo scientifico, con l’università, e mia sorella, dopo il diploma magistrale ha frequentato la Scuola Superiore della Stella Maris, per insegnare ai ragazzi “speciali”».
Una volta laureata ha faticato per farsi spazio come donna?
«No, perché sono stata sempre considerata “come un uomo” e oggi non so dire se questo è un bene o se comunque ha in sé qualcosa di misogino. Per tanti anni sono sempre stata l’unica tra una serie di maschi, ma i miei colleghi, e soprattutto il professor Pinchera, mi hanno valutata per quello che facevo e ottenevo. Anche se l’essere donna ha limitato la mia progressione di carriera: sia nel passaggio da ricercatrice a professore associato, sia nel diventare direttrice di unità Operativa, sia nel passaggio da professore associato a professore ordinario (che peraltro non è ancora avvenuto). È sempre andato avanti qualche maschio, anche se io avevo titoli superiori».
Lei ha avuto due figlie proprio nel pieno della carriera. È stato difficile?
«Le mie figlie le ho fortemente volute. Sapevo che mi avrebbero complicato la vita, ma si trattava di una complicazione voluta a tutti i costi. E poi sono stata fortunata, perché ho avuto un grandissimo aiuto da mia madre e da mio marito, che mi ha sposata sapendo quali fossero le mie aspirazioni e conoscendo la mia dedizione al lavoro».
Lavoro, maternità, famiglia. Di tempo libero ne ha avuto sempre poco…
«Sì. E quel poco ho cercato di dedicarlo alla famiglia e alle bambine in particolare, sacrificando me stessa (mai andata in palestra, mai andata dall’estetista. Giusto dalla pettinatrice al bisogno!), però senza soffrirne».
Ha mai avuto ripensamenti circa la scelta fatta?
«Mai. Da medico ho scelto di dedicare molto del mio tempo alla ricerca. Mi sono laureata nel 1985 e specializzata nel 1988. A gennaio 1989 sono partita per Bruxelles con una misera borsa di studio del ministero degli Esteri, vinta con tanto di concorso pubblico e là sono rimasta due anni interi, da sola, benché fossi già fidanzata con Franco da otto. È stata un’esperienza molto dura, grazie alla quale però ho imparato la ricerca pura, lavorando al bancone e maneggiando cellule e quant’altro. A gennaio 1991 sono tornata a Pisa vincendo un concorso per “tecnico laureato” (non come medico) e lì, grazie all’appoggio del professor Pinchera, ho fondato il laboratorio di biologia molecolare, sperimentando cose a cui in quegli anni in Italia non si avvicinava quasi nessuno».
A quel punto?
«Mi mancava l’esperienza statunitense, fondamentale per acquisire conoscenze avanzate e migliorare la lingua inglese che allora in Italia non si insegnava. Nel settembre 1994 – la mia prima figlia Silvia aveva dieci mesi – Pinchera mi propose di andare negli Stati Uniti presso un laboratorio all’avanguardia. Parlai con Franco perché sarei andata solo a condizione che fossero venuti lui e la bimba. Mi chiese un po’ di tempo per riflettere e partimmo tutti per Los Angeles, restandoci sei mesi, per trasferirci poi trenta mesi a Cincinnati, al seguito del mio capo americano e di tutto lo staff del laboratorio».
Poi rientraste in Italia?
«Sì, a fine 1997. Ripresi da medico, ma il piccolo laboratorio di ricerca che avevo avviato qualche anno prima c’era sempre, così ho cercato di farlo crescere, coinvolgendo giovani biologi che ho sostenuto grazie ai fondi ottenuti con progetti finanziati. Oggi il laboratorio conta quattro biologi e vari studenti, che vengono per le loro tesi, contribuendo alla ricerca. Abbiamo vinto vari progetti, fra cui un progetto Airc quinquennale, che ci permetterà di continuare la ricerca sul carcinoma tiroideo».
Ad agosto 1998 nacque la sua seconda figlia. Ma in seguito accadde un fatto grave.
«L’11 giugno 2002 mio marito, mentre andava al lavoro (al ritorno dagli Stati Uniti aveva avuto un contratto da grafico con l’Università di Pisa), fu vittima di un incidente in moto e, per quaranta giorni, stette in terapia intensiva, con prognosi riservata a seguito di un politrauma. Ne uscì vivo, ma con una lesione vertebrale che a 44 anni lo inchiodò alla sedia a rotelle. Trasferito all’Istituto di Montecatone di Imola per la riabilitazione, ci rimase fino alla fine del marzo 2003. Io ho continuato a lavorare e tutti i venerdì pomeriggio partivo per Imola, rientrando la domenica sera. E, dopo il ritorno a casa, Franco lasciò il lavoro fisso, occupandosi a tempo pieno delle bambine. La nostra vita cambiò decisamente, ma costruimmo una nuova realtà e la nostra unione rimase intatta».
Sua figlia maggiore ha deciso di studiare medicina.
«È ginecologa. Pensavo che odiasse il camice bianco, per il tempo che le aveva sottratto la madre. Ma quando mi ha detto che era convinta, ho capito che forse non era andata poi così male».
E quando la minore ha annunciato che avrebbe voluto iscriversi a un’accademia di teatro come ha reagito?
«Sia io che Franco siamo rimasti “di sasso”. Era una scelta al di fuori delle nostre previsioni. Ma quella era la sua strada e l’abbiamo subito assecondata. Oggi lei è felice di ciò che sta facendo e per noi quella la cosa è fondamentale».
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