Primo suicidio assistito in Toscana, la scelta di un 40enne di Piombino. Chi è il dottore autorizzato dall’Asl
Il trattamento che ha portato al fine vita gli è stato somministrato in casa. Paolo Malacarne: «Il medico del suicida sono io, mai dire a un malato “arrangiati”»
LIVORNO. È passato per mesi sotto traccia. Tra fughe in avanti e repentine marce indietro, non ha mai avuto conferma. Oggi l’ufficialità. Anche in Toscana c’è un caso di suicidio medicalmente assistito. Una morte arrivata seguendo le regole dettate dalla Corte costituzionale nel 2019 sul “caso Cappato”. Una sentenza che ha consentito a un quarantenne di Piombino, nei primi mesi di quest’anno, di mettere fine alla propria vita dopo il via libera del sistema sanitario regionale alla luce della sua grave invalidità. A rivelarlo è il medico che ha avuto l’incarico di seguire il caso. «Sì, sono io il primo “assistente medico al suicidio” della Toscana», conferma Paolo Malacarne, primario in pensione del reparto di Anestesia e rianimazione all’ospedale di Cisanello.
Il medico pisano anticipa a Il Tirreno quello che sarà il caso su cui ruoterà il seminario “L’aiuto al suicidio come diritto?», in programma oggi (lunedì 19) alle 14,30 alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Malacarne interverrà sul tema “Responsabilità, professionalità, formazione dell’aiutante al suicidio” «partendo proprio da questa esperienza di medico e uomo» spiega, sottolineando che non può dare ulteriori «informazioni sull’uomo che ha preso la decisione di morire: lui e la sua famiglia mi hanno scelto come medico facendo espressa richiesta di non rivelare informazioni che consentano di individuarlo».
Quasi per paradosso, l’uomo che nella sua vita professionale ha salvato dalla morte migliaia di persone finite in rianimazione, una volta in pensione ha assistito un uomo che, vinto da una malattia irreversibile, ha scelto di morire. Per Malacarne, tuttavia, la questione è un’altra e sta nella stessa essenza del giuramento di Ippocrate. «Sono contrario a chi afferma che un medico non debba aiutare il suicidio – sostiene –. A mio avviso è lecito se la morte è l’unico modo per non subire sofferenze indicibili. E in questi casi il medico non può mai abbandonare il malato: non può fermarsi sulla soglia di una richiesta di morire e dire al paziente di arrangiarsi».
E proprio la sofferenza è uno degli elementi decisivi, in base alla sentenza della Corte costituzionale, per poter accedere al suicidio assistito. Secondo la Consulta il punto dirimente è che la persona sia «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma – specifica la sentenza – pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Partendo da queste linee giuda, l’Asl Toscana Nord Ovest è stata tra le prime aziende sanitarie italiane a dotarsi, in assenza di un intervento legislativo (vedi articoli nella pagina a destra), di un regolamento per i casi di morte assistita. Un percorso, seguito dal quarantenne di Piombino, che prevede che la persona che vuole ricorrere al suicidio assistito si rivolga al servizio sanitario, direttamente o tramite il proprio medico. L’Asl deve quindi verificare che siano rispettati i requisiti indispensabili che sono previsti dalla sentenza della Corte. Insieme a tutta una serie di condizioni oggettive sullo stato di salute, deve infatti essere accertato che la volontà del soggetto sia stata espressa in modo chiaro e univoco e che il paziente sia stato informato sia sulle sue condizioni sia sulle possibili soluzioni alternative (come accesso alle cure palliative o la cosiddetta sedazione profonda continua). Dopo tutta una serie di verifiche, il fascicolo dell'interessato viene inviato al comitato etico, che ha il compito di valutare singolarmente caso per caso e verificare che la situazione sia conforme con la procedura prevista dalla Consulta.
Una procedura simile è stata seguita anche in Friuli Venezia Giulia nell’ultimo caso noto di suicidio assistito, quello di una 55enne di Trieste. Un caso che, però, si differenzia da quello piombinese per un particolare: mentre l’Asl triestina ha messo a disposizione della donna il farmaco e i macchinari necessari al suicidio, quella toscana non la ha fatto «perché – spiega Malacarne – non è specificato nelle linee guide» dell’Asl Nord Ovest.
Secondo quanto appreso da Il Tirreno è stata la famiglia a procurare il necessario e portarlo nella casa del quarantenne. Così è potuto entrare in scena Malacarne, che ha assistito il malato fino alla fine. «In reparto ho visto talmente tante e tali sofferenze che ho sviluppato una riflessione sul tema», conclude l’ex primario di rianimazione.
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