Il Tirreno

Toscana

L'intervista

Femminicidi, un uomo violento racconta: «Io, incapace di gestire emozioni fino a ferire la mia compagna»

di Ilaria Bonuccelli
Femminicidi, un uomo violento racconta: «Io, incapace di gestire emozioni fino a ferire la mia compagna»

Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, la testimonianza di un uomo maltrattante che sta facendo un percorso di recupero: «Ignaro di essere violento. Mio padre mi diceva che le donne servono solo per il sesso e per fare figli»

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Quando Marco (nome di fantasia) parla di sé come uomo violento la voce si vena di stupore. «Non è questa la percezione che ho di me stesso. Invece è successo». Un giorno, durante un lavoro, scaglia una videocamera contro la (ex) compagna. La colpisce in faccia. Il sangue sgorga, dà l’auto a un collega: “Portala al pronto soccorso”. Ci sono 15 giorni di referto, scatta la denuncia, poi processo, la condanna. La vergogna. Il percorso di recupero per uomini maltrattanti, per evitare la galera. Per tre anni aspetta che a Roma gli trovino un centro. Infine se lo cerca da solo, su suggerimento del tribunale. Lo trova a Livorno, al Centro “Lui”.

«Quello della telecamera per me era il primo episodio. Io lo consideravo il primo. In una storia precedente c’erano stati oggetti tirati, tavolini rigirati e un ceffone che ho pure ripreso. Ma non li ho mai considerati episodi così gravi da pensarmi a rischio di poter fare male a una persona. Invece, è accaduto».

Nessun violento si riconosce come tale. Né chi gli è accanto sa leggere i segnali della sua violenza. Il padre di Filippo Turetta ammette: «Credevo che mio figlio fosse il figlio perfetto, mai un litigio, andava bene a scuola». Eppure proprio al padre Nicola il ragazzo confessa: “Senza Giulia non posso più vivere”. Parole non pesate. Invece, con l’ossessione, l’isolamento, erano un segnale di pericolo: il rapimento, le venti coltellate, il femminicidio di Giulia Cecchettin, l’ex fidanzatina.

Marco non si è mai spinto così lontano nella violenza. E quando si è scoperto capace di poterla agire ha voluto iniziare un percorso. In salita. Ancora in corso d’opera. Di cui prova a parlare.

Marco, in questo percorso lei avrà anche provato ad andare alle radici dei suoi comportamenti violenti. Com’era la sua famiglia?

«Potrei definirla una famiglia molto tradizionale nel panorama italiano della mia generazione (40-50enni): comanda il marito e la moglie più sta zitta e meglio è. In questo lavoro su me stesso, mi sono accorto che ero stato abituato che in casa si faceva come diceva papà e amen; che fosse una normalità sminuire la donna. In casa non ho mai visto botte, sangue. Ho visto litigate, questo sì: mi ricordo di me, piccolo, nell’angolino che piangevo mentre i miei genitori litigavano».

Lei, quindi, è diventato un uomo come suo padre: “Si fa come dico io”?

«Più che essere un tipo di uomo da “tu donna stai zitta” pensavo che la donna dovesse stare lì a sorbirsi tutti i miei malumori ogni volta che le cose non andavano come avevo programmato. O come secondo me dovevano andare. E, infatti, se accadeva diventavo antipatico e addossavo alla mia compagna tutte le responsabilità. Di fatto era quello che accadeva a casa mia: fino a quando mio padre stava bene, perché le cose andavano come voleva lui, era molto simpatico. Ma appena non aveva quello che pensava dovesse ottenere allora cambiava: si stressava e si sfogava principalmente con mia madre. A questo comportamento principalmente ho dovuto fare attenzione. Non c’era cattiveria nei miei comportamenti. Neppure mio padre era cattivo. La sua era un’inquietudine più subdola».

Questo comportamento aggressivo perché le cose non vanno come si desidera?

«Forse questo è un dramma che appartiene un po’ a tutti, in partenza. Poi c’è chi dice “Lavorerò per ottenere ciò che non ho avuto” e c’è chi dice chi comincia a cercare di dare la colpa a qualcun altro. Io ho scelto il dare la colpa agli altri».

Scusi, lei è mai stato felice nelle sue relazioni?

«In una qualche maniera sì. Ma si deve ricercare nella ragione per cui nascevano (e finivano) le mie storie. Non era tanto chiaro se mi piaceva la persona in sé o se mi lusingava il fatto di aver conquistato la ragazza che piaceva a tutti quelli intorno a me. Ero contento, insomma, di aver conquistato una bella “preda”. Nelle mie compagne spesso ho cercato la bellezza che poi, ti accorgi, svanisce. E non regge un rapporto. Sicuramente ho avuto un’educazione emozionale pessima. Mio padre mi ha dato un po’ questo esempio: la relazione di coppia serviva a sfogare il sesso, a fare i figli. La mia crescita emozionale a 18 anni, era quella di un bambino di nove. In famiglia ho visto questo: mia madre molto bella, mio padre che le diceva tante volte: “Lei è di paese, certe cose non le po’ capì”. Per anni questo stato il mio modello di relazione».

Che, però, l’ha portata ad agire violenza. Ma senza la condanna si sarebbe mai approcciato a un percorso di recupero?

«Ho un percorso di vita particolare. Ho fatto yoga, meditazione; oltre dieci anni fa ho partecipato a un gruppo di ascolto di uomini, in Spagna. Eppure tutto questo non mi ha portato a evitare che tirassi la telecamera in faccia alla mia compagna. Ha evitato, però, che il giorno dopo mi inventassi cose per negare l’accaduto. La tentazione di dire agli altri che sono scivolato e la telecamera è sfuggita e l’ho colpita per sbaglio è durata molto poco. Quel precedente lavoro su me stesso mi è anche servito a non dare a lei la colpa di quello che era successo».

Come si è sentito dopo questo gesto di violenza?

«Ghiacciato. Forse arrabbiato con me stesso perché sentivo che lei era una brutta persona e non la volevo più nella mia vita, ma non ero riuscito a trovare il modo di romperci. Avrei dovuto solo dirle: “Vattene, è finita”. Invece non ce l’ho fatta. Poi c’è stata quella frazione di secondo».

Il lancio della telecamera.

«Il dispiacere di aver dato un dolore del genere a mia madre. L’arrivo dell’avviso di garanzia a casa dei miei, dove risultavo ancora residente. Poi le parole del carabiniere quando sono andato a ritirare il foglio per presentarmi al processo: “Ma lei lo sa perché le sto dando questo atto?” ». E poi tutti i reati contestati».

L’hanno stupita i fatti che le hanno contestato?

«Non voglio entrare nel merito del processo e di quello che lei ha detto che le avrei fatto in tutti i mesi della nostra relazione. Ma oggi comprendo che ci sono cose che nemmeno pensiamo che possono essere tacciate come violenza. Mi ricordo che quando a 12 anni entravo a casa e mio padre urlava e sbatteva cose per me quello era il terrore. Se la mia ex compagna ha vissuto quella stessa sensazione quando ero alla scrivania a sbattere e gridare “perché cazzo questo computer non funziona” allora, ok. Se ha vissuto mesi di panico, va bene che sia andata così. Oggi ci sono cose che potrei fare in un altro modo. Per me è proprio partire da non sbattere più nulla “per questo computer di merda” che mi porterà a non tirare il prossimo ceffone».


 

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