Gregorio De Falco torna sulla Concordia, così dieci anni dopo: «Se mi avessero dato retta si sarebbero salvati tutti»
L'attuale senatore racconta della registrazione entrata nel linguaggio comune, di ciò che ha fatto «e rifarei»
Per l’Italia, quella notte, è stato l’eroe al quale aggrapparsi. Con una frase che è stata un salvagente per molti, in mezzo alla tempesta della vergogna di una tragedia assurda. Dieci anni dopo Gregorio De Falco, ora senatore della Repubblica, eletto nei Cinque Stelle ma ormeggiato nel gruppo misto dopo l’espulsione dal Movimento, torna a bordo della nave Costa Concordia. Racconta della registrazione entrata nel linguaggio comune, di ciò che ha fatto «e rifarei». Parla del comandante Francesco Schettino. E soprattutto pensa alle trentadue vittime. Perché – dice – «ho la certezza che se il comando della nave avesse cooperato con i soccorsi tutti si sarebbero salvati».
A distanza di dieci anni sappiamo tutto di quello che è successo?
«Nelle carte processuali c’è tutto. Sappiamo ciò che ha determinato la responsabilità della tragedia, le storie umane di chi era a bordo e dei soccorritori che li hanno assistiti».
Lei passerà alla Storia del naufragio con la frase “Vada a bordo, c…” pronunciata al telefono con il comandante Schettino. Oggi quella frase la direbbe ancora?
«Ripeterei tutto quello che è stato fatto. Perché è stato il modo più efficace, compresa quella frase che è rimasta inascoltata dal comandante. Se avessi avuto altri interlocutori li avrei chiamati, ma nella sala di comando non c’era nessuno, la plancia era abbandonata. Eppure, la legge della navigazione è chiara. Come persona fisica il comandante può essere assente, impedito, o anche morire, come capita nella vita. Ma il comando da un punto di vista oggettivo non può mai mancare. In quella circostanza il comandante non c’era e non c’erano altri interlocutori. Ecco perché quella frase: tornare a bordo era necessario per dare ordini e coordinare gli sforzi della nave con quelli di motovedette ed elicotteri. Ma questo non fu fatto. E poi quell’ordine seguiva una serie di comunicazioni. Era l’acme di un crescendo di delusione, perché in realtà non c’era motivo di abbandonare la nave. Era una richiesta. In sostanza la tragedia si consumò in due fasi: impatto e abbandono nave. Se il comandante fosse tornato a bordo e avesse operato per il salvataggio delle persone, penso che anche l’opinione pubblica lo avrebbe perdonato, forse facendone un eroe. Ripeto, in quel modo, noi potevamo salvare tutti quanti. Invece si è sfaldato il comando. E tutti hanno agito in maniera autonoma».
In un’intervista al Tirreno di quattro anni fa raccontò che non sapeva che la conversazione fosse registrata. Ci spieghi meglio.
«Diciamo che non ne avevo la certezza perché lo strumento in dotazione alla sala operativa si era rotto un mese prima. Il venerdì pomeriggio l’apparato arrivò in Capitaneria e il maresciallo che si occupava della parte tecnica lo aveva rimontato. Ma io non lo sapevo. Inoltre, faceva un rumoraccio».
Qualche giorno dopo quella registrazione uscì sul Corriere e la sua vita cambiò. Si è chiesto perché venne data ai giornalisti e per quale motivo?
«Certo».
E che risposta si è dato?
«Chiariamo: quella telefonata non ha creato un eroe ma ha messo in luce l’andamento della vicenda. Ha dato all’opinione pubblica la conoscenza dei fatti. Così il riflesso negativo di quella terribile tragedia sul nostro Paese si è attenuato. Nei primissimi giorni vi ricordate cosa dicevano di noi sulla stampa internazionale? Per quello che ci riguarda, e parlo per tutti quelli che quella notte hanno dato una mano, noi abbiamo pensato solo a fare al meglio il nostro lavoro. Il criterio è immedesimarsi nelle persone che vivono quella situazione: paure, apprensione, soprattutto di piccoli e anziani. Eroici sono stati i ragazzi sugli elicotteri che infatti hanno ricevuto un tributo importante, come le medaglie d’argento al merito. La Capitaneria è stata premiata con una medaglia. Io con un encomio di cui vado fiero».
Ma si è sentito strumentalizzato, usato?
«Per niente. Ogni sforzo è stato quello di non farmi strumentalizzare. Io ero polizia giudiziaria e testimone. Tutto quello di cui venivo a conoscenza non era nella mia disponibilità ma della magistratura. È stata questa la difficoltà».
Avesse il comandante Schettino davanti che cosa gli direbbe?
«Quello che dovevo dirgli gliel’ho detto quella notte, quando ero a capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno a cui era stata demandata la gestione del soccorso. Ora sono fuori dal ruolo e non ho niente da dire. Anche perché ancora oggi non ho capito quello che ha fatto».
In un’intervista del 2014 disse che Schettino non era l’unico responsabile della tragedia. Nei giorni scorsi il tribunale di Genova ha condannato a Costa a risarcire un passeggero. Ci aveva visto lungo…
«È semplicemente quello che è stato detto anche in termini penali. Il procedimento si è concluso con la condanna di Schettino ma anche con il patteggiamento degli ufficiali di coperta che non reagirono all’inerzia del comandante adottando le decisioni più opportune. E di Roberto Ferrarini, uno dei tre responsabili di Costa per l’emergenza. Ecco perché in effetti Schettino non è stato l’unico responsabile del naufragio».
Un’ultima cosa: dieci anni dopo che cosa ci ha insegnato quella notte maledetta? E soprattutto: una cosa simile può accadere di nuovo?
«La tragedia della nave Costa Concordia è stata determinata dalla scelleratezza di più gesti. Ecco perché non è ripetibile. Cosa ci ha insegnato? Come per la pandemia ci avrebbe dovuto insegnare l’importanza della solidarietà e l’immedesimarsi nell’altro. Senza questi due elementi non siamo una società, ma singoli persi in mezzo al mare».