Costa Concordia, il processo: le 27 ore di Schettino tra rivelazioni, bugie e ammissioni
Ben 72 le udienze in totale: una di queste detiene il singolare “record” di essere iniziata un giorno e finita quello dopo (a tarda notte). I passaggi salienti di un procedimento entrato nella storia: parla Giovanni Puliatti, il giudice che emise la sentenza
Il 17 luglio 2013 la prima udienza. L’11 febbraio 2015 l’ultima, quella della lettura del dispositivo che condanna Francesco Schettino, unico imputato, a 16 anni. Totale: 72 udienze. Una di queste detiene il singolare “record” di essere iniziata un giorno e finita quello dopo (a tarda notte). Una città rivoluzionata, Grosseto, non solo per il processo pubblico ma anche per quel precedente “incidente probatorio” gestito nell’ottobre 2012 dall’ufficio del giudice per le indagini preliminari, in cui le prime prove erano state cristallizzate, nello stesso teatro Moderno, seppure a porte chiuse. “Rivoluzionata” non è un’esagerazione: decine e decine di troupe televisive da ogni parte del mondo, avvocati, naufraghi e loro familiari, strade chiuse, parcheggi riservati, alberghi pieni, così come bar e ristoranti, tecnici al lavoro, forze dell’ordine chiamate agli straordinari all’esterno e all’interno dell’aula alternativa a quella del Tribunale, unico contenitore abbastanza grande, con i suoi mille posti a sedere, per ospitare tutti i potenziali interessati al procedimento.
Quaranta minuti per leggere il verdetto. Tanti ne impiega il presidente Giovanni Puliatti mentre lui, il comandante, è assente, piegato dall’influenza, sotto iniezioni di antibiotico da tre giorni: attende notizie nell’agriturismo alle porte della città, scelto come buen ritiro al riparo dalle inevitabili curiosità di quasi tutti, se non tutti, i 170 giornalisti accreditati per l’evento. Sedici anni di reclusione e un mese di arresto per il naufragio della Concordia del 13 gennaio 2012 sullo scoglio della Gabbianara, 32 morti e 157 tra feriti e traumatizzati. La Procura di anni ne aveva chiesti 27. I giudici non accordano i 14 anni chiesti per gli omicidi colposi ma 10, con il riconoscimento del concorso formale ma con l’esclusione dell’aggravante della colpa cosciente (cioè la previsione dell’evento). Non 9 anni per il naufragio ma 5, qui invece con il riconoscimento della colpa cosciente ma (come chiesto dalla Procura) senza l’aggravante dell’articolo 1122 del Codice della navigazione. Non 3 anni ma uno con il riconoscimento della continuazione tra l’abbandono della nave e (più grave) l’abbandono di persone incapaci. Un mese e non 3, infine, per le quattro false comunicazioni all’autorità marittima, contravvenzioni unificate. No al carcere: Schettino entra a Rebibbia solo dopo la Cassazione, maggio 2017. E nella serata, subito dopo la sentenza, il comandante rilascia una breve dichiarazione: «Combatterò sempre per dimostrare che non ho abbandonato la Concordia». I difensori, Donato Laino e Domenico Pepe, la pensano allo stesso modo: «Quel reato non sussiste».
Il sipario cala dopo che sono stati sentiti 149 testimoni, 31 consulenti, 18 periti. Dopo che il Tribunale ha visto la costituzione di 379 parti civili, rappresentate da 65 avvocati diversi. Dopo che i giudici hanno raccolto nei 100 faldoni quasi 56mila pagine. Dopo che hanno disposto 10 perizie e letto oltre 30 ordinanze. Dopo che sono stati per due volte sulla Costa Concordia rimessa in linea di galleggiamento, per rendersi conto personalmente dei fatti descritti in aula, anche con lo stesso comandante che nel sopralluogo del 27 febbraio 2014 risale a bordo per la prima volta dopo il disastro. Cala dopo che, già a maggio 2013, i cinque coimputati sono usciti di scena con il patteggiamento: 2 anni e 10 mesi per il responsabile dell’unità di crisi Roberto Ferrarini; 2 anni e 6 mesi per l’hotel director Manrico Giampedroni; un anno e 11 mesi per l’ufficiale Ciro Ambrosio; un anno e 6 mesi per l’altro ufficiale Silvia Coronica; un anno e 8 mesi per il timoniere indonesiano Jacob Rusli Bin (pena sospesa solo agli ultimi tre). A lui, a Schettino, era stato negato il patteggiamento da 3 anni e 4 mesi: troppo pochi secondo il pool della Procura – il capo Francesco Verusio, i sostituti Maria Navarro, Alessandro Leopizzi, Stefano Pizza _ che nel corso del processo non risparmia nulla al comandante. Nemmeno la definizione di «incauto idiota».
A marzo 2017, prima che la sentenza diventi definitiva, Schettino affida a un video su Youtube la sua verità: 18 minuti di ricostruzione, con le sue risposte, foto, spezzoni di filmato, testimonianze di passeggeri, materiali agli atti del processo, come le registrazioni di telefonate, ancora per contrastare l’accusa più infamante per un comandante, quella di aver abbandonato la nave. Non serve nemmeno questo.
PARLA IL COMANDANTE
L’interrogatorio fiume: le 27 ore del “primo dopo Dio”
Ventisette ore di inferno. E di rivelazioni. Anche di bugie. Di ammissioni di responsabilità parziale nella tragedia («una quota», ripete spesso), cioè la chiamata in concorso di chi era in plancia, di fatto poi riconosciuta dai giudici nella sentenza. Francesco Schettino accetta di rispondere in Tribunale. Anzi, questi cinque giorni in aula – è ormai la fine del 2014 – li ha cercati sin dal primo momento. E bisogna vederlo, anche se non ha dato il consenso a farsi riprendere in udienza. E bisogna sentirlo, al teatro Moderno. Nemmeno Pietro Pacciani era stato sotto esame così a lungo: nel processo al cosiddetto mostro di Firenze l’imputato aveva parlato per otto ore.
Il comandante della Costa Concordia nelle 27 ore nette (14 di risposte al pubblico ministero Alessandro Leopizzi, 8 e mezzo alle parti civili e in ultimo 4 e mezzo per le precisazioni) accompagna le sue parole con la mimica del corpo e del volto, con espressioni gergali (come quel ricorrente «ex post» mutuato dal linguaggio giuridico), con un inglese comprensibilissimo ma inevitabilmente e simpaticamente impastato di partenopeo, con modi di dire, con battibecchi con chi gli fa domande non gradite, con allusioni, con frasi dette e non dette, con richiami più o meno blandi ai propri difensori che non lo seguono o vanno troppo veloci rispetto al suo pensiero. Quello che voleva dire, comunque, lo dice: trova il modo di dirlo, sia quando risponde obliquamente ad alcune domande, sia quando spara dritto ciò che gli interessa far sapere. Furbo? Intelligente? Sincero? Sicuramente preparato e consapevole.
Non manca di rivolgere un pensiero ai 32 morti: «Purtroppo ci furono persone rimaste incastrate tra i terrazzini della nave che si era improvvisamente abbattuta. Sono momenti purtroppo indimenticabili. In quel momento tra morire, tuffarsi, cadere, sono andato sulla scialuppa», dice ricordando quella notte del 13 gennaio 2012. Ma tiene a ribadire più volte, fino allo sfinimento, che la colpa non fu tutta sua. Era stato tenuto all’oscuro, dice, spalma le responsabilità sui suoi collaboratori: quelli in plancia («nessuno parlava, ma gli ufficiali devono parlare. Un ufficiale ha l’obbligo giuridico di manifestare un pericolo immediato»), quelli in macchina («il direttore di macchina Pilon mi dette indicazioni confuse»), quelli a Genova nella sala di crisi («i messaggi da Ferrarini mi hanno creato incertezze»). Nonostante tutta la disponibilità dichiarata dal palco, nemmeno con le tenaglie chi lo interroga riesce a strappargli una confessione: a nessuno Schettino dice «sì, qui è stata solo colpa mia». E l’inchino? Lui lo definisce un “saluto”, un avvicinamento che intendeva «prendere tre piccioni con una fava», cioè l’omaggio ad Antonello Tievoli, maître gigliese, e all’ex comandante Mario Palombo e la cura dell’aspetto commerciale («non fu favore a Domnica Cemortan»): «Trattandosi di un’accostata, non ho avvertito nessuno».
E se ammette di aver detto bugie, come in occasione dell’interrogatorio di garanzia davanti al gip quattro giorni dopo il naufragio, spiega di averlo fatto solo perché quel giorno era fuorviato dalle dichiarazioni di chi aveva avuto accanto e da cui si era fatto ricostruire gli eventi di cui non aveva avuto diretta conoscenza. Quegli ufficiali che pensavano forse «di essere sul Concorde invece che sulla Concordia» e di poter «volare» sulla montagna che si era parata davanti alla prua invece che parlare al comandante di ciò che stava accadendo. Come se avessero preferito il morire al parlare. «Bisogna parlare, altrimenti bisogna fare un altro lavoro».
Scocciato, talvolta, Schettino risponde con segni di insofferenza oppure con espressioni sbrigative: «Facevo meglio a tornare in cabina» invece che ordinare la manovra di avvicinamento al Giglio con quell’equipaggio («era meglio!», si alza una voce dall’aula); «non ho privilegiato la nave rispetto alle vite umane», a proposito della chiamata dei rimorchiatori; «dopo ho scoperto che a bordo c’era un sacco di eroi», criticando chi era in plancia con lui. Dimostra un certo dispregio delle procedure, preferendo far affidamento sulle proprie capacità e sul proprio istinto, bollando le procedure Costa come «il manuale delle giovani marmotte», rivendicando al comandante abilità di manovra e fiuto nel prevedere i movimenti della nave: con quella manovra in emergenza «eravamo quasi arrivati a evitare lo scoglio. Figuriamoci cosa poteva essere fatto anche con soli 30 secondi in più, sempre che mi avessero fornito tutti i dati».
Nemmeno quando, per ultimo, il pubblico ministero Stefano Pizza gli fa notare le tante incongruenze nel suo comportamento – al timone o comunque in plancia come anche dopo aver lasciato la nave – Schettino abdica dal suo ruolo di «primo dopo Dio». Quell’espressione che gli aveva attirato critiche, ma che nella sua ottica è rispondente ai suoi compiti.
«NON CHIAMATELE CAPO ESPIATORI»
Giovanni Puliatti, il giudice che emise la sentenza
Presidente, se dico la parola “Concordia”, lei a cosa pensa, a distanza di dieci anni?
«Alla nave reclinata sul fianco».
Non a quella rimessa in galleggiamento che aveva visto con i suoi occhi, su cui era salito, nei due sopralluoghi effettuati nel corso del processo?
«No, penso proprio alla prima immagine della nave, quella notte». Giovanni Puliatti è stato il presidente del collegio del Tribunale di Grosseto (insieme a lui Marco Mezzaluna e Sergio Compagnucci, con la cancelliera Roberta Benedettelli) che ha giudicato colpevole Francesco Schettino. In pensione dalla fine del 2020, dopo 43 anni trascorsi indossando la toga, ha condotto un dibattimento lungo 72 udienze. Un processo chiuso in tempi davvero brevi se rapportati alla complessità dell’evento. Sentenza del febbraio 2015 confermata in Appello e in Cassazione, 553 pagine di ricostruzione della tragedia e dei risultati del processo.
Presidente, e quale invece il suo sentimento?
«Adesso, a distanza di dieci anni, coesistono la percezione del dramma e quella del lavoro ben fatto. Un lavoro di squadra». Da quando la sentenza è diventata definitiva, il giudice Puliatti ha potuto e voluto dire la sua: «Il processo Schettino, è stata un’esperienza unica, terribile, drammatica. Forse non la più difficile dal punto di vista professionale ma la più impegnativa per le conseguenze sulla vita personale. Ci sono stati momenti in cui solo il cercare di affrontare la vicenda dal lato tecnico, giuridico, ci ha permesso di andare avanti nel procedimento».
Già, Schettino. Puliatti cosa pensa di lui?
«Lui non è stato un capro espiatorio. È stato l’unico che ha scelto il dibattimento pubblico. Definirsi vittima sacrificale è sbagliato. Il suo comportamento è stato quello di non voler ammettere le proprie responsabilità, ma è comunque un diritto dell’imputato affrontare il vaglio dibattimentale».
Lei si sente di dire che qui tutti siamo stati nella Storia e ne abbiamo scritto una pagina?
«Sì, se si intende parlare di tutti coloro che ne sono stati coinvolti e hanno collaborato alla scrittura. E cioè il Giglio, Grosseto, la piccola realtà del nostro Tribunale: tutti sono stati all’altezza. Siamo stati nella Storia alla pari del reduce che, dopo la guerra, dimentica tutto ciò che di tragico ha vissuto e ricorda solamente l’eroismo dei compagni».