Il Tirreno

L’intervista

Gli 80 anni di Fausto Leali: «Lavoravo in una salumeria, poi mia mamma mi fece un regalo.... In Versilia la svolta»

di Luca Tronchetti

	La festa per Fausto Leali
La festa per Fausto Leali

L’artista festeggia con un nuovo album e si racconta. I tra i giovani artisti incorona Elodie

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La voce soul della musica italiana, precursore del rhythm and blues di casa nostra per quella timbrica roca e potente che ricordava più un raccoglitore di cotone dell’Alabama che un garzone di bottega della nebbiosa bassa bresciana, con oltre 60 anni di successi alle spalle fatti di brani memorabili come “Deborah”, “Angeli neri”, “Un’ora fa”, “Io camminerò”, “Io amo”, “Mi manchi” e milioni di copie vendute con svariati dischi d’oro, ieri è entrato ufficialmente nel club degli ottantenni. E Fausto Leali, inconfondibile voce black made in Italy, ha festeggiato l’evento al Teatro del Casinò di Sanremo che lo ha visto protagonista in 13 edizioni del Festival della canzone italiana e artista con il maggior numero di piazzamenti nei primi cinque posti in classifica (ben otto) compreso il trionfo del 1989 con “Ti lascerò” eseguito in coppia con Anna Oxa. E per l’occasione gli organizzatori gli hanno regalato una copia della statuetta che gli venne consegnata 35 anni fa sul palco dell’Ariston.

Ad andare in pensione, dopo una vita trascorsa nei locali e negli studi di registrazione, non ci pensa proprio e presto tornerà alla ribalta: «Ho in programma un nuovo disco che uscirà il 22 novembre. Il titolo? Top secret». Questo gigante, a dispetto della bassa statura, della musica leggera deve buona parte del successo alla Toscana. E in modo particolare alla Bussola di Sergio Bernardini: «Era il 1964 e avevo 20 anni quando venni scritturato per tutto il mese di agosto con il mio gruppo, i Novelty, da quel genio, che io venero come un santo, che era il proprietario del locale più trendy e famoso d’Italia. Da lì è partita la mia carriera».

Che ricordi ha di quel magico periodo che ha rivoluzionato la musica e i costumi degli italiani?

«La Versilia era un luogo speciale. Il boom economico portava una ventata di allegria e divertimento. Non solo la Bussola, ma anche la Capannina di Franceschi e altri locali erano frequentati dal jet set con gli artisti che arrivavano da tutto il mondo e avrebbero pagato di tasca per essere lì in quel momento. Sentivo che nell’aria c’era un fermento, una travolgente euforia, e vista la mia giovane età non mi rendevo conto che da lì a poco, grazie al felice incontro con Bernardini, sarei diventato famoso».

Quali erano i cantanti del periodo con cui legasti di più?

«Divenni grande amico di Enzo Iannacci, che già conoscevo, e con cui ho condiviso successi e risate alla Capannina e soprattutto di quel simpatico matto che era Rocky Roberts, che come me aveva un gruppo musicale (The Airedales) di cui faceva parte Wess che per un certo periodo si esibì con Dori Ghezzi».

Fu alla Bussola che incontrò Mina?

«La più grande e completa artista che abbia mai conosciuto. L’unica donna che ho invitato nel 2016, per fare un duetto assieme, quando ho inciso il disco “Non sono Leali”. Nel 1964 lei abitava in una villa a Marina di Pietrasanta. È venuta due-tre volte a vedere le mie esibizioni. Sorrisi, complimenti, strette di mano, ma tutto finì quell’estate. 22 anni dopo, era il 1986, venivo da un periodo difficile: lavoravo poco e sbagliavo canzoni. Un giorno squilla il telefono. È Mina che mi fa: “Ti va di incidere un pezzo con me, si intitola ‘Via di qua’ e sarà colonna sonora di una trasmissione Rai”. Non me lo faccio ripetere. All’epoca abitavamo vicini e mi sono fiondato a casa sua per iniziare le prove. Sono uno dei pochi ad avere duettato con lei dal vivo ed ero terrorizzato perché lei era già una grande interprete dalla voce e dalla presenza imponente e io al confronto un povero tappo. Così per farmi coraggio ho bevuto tre bicchieri di whisky. Il disco è andato bene e da lì è nata un’amicizia più stretta. Ci sentivamo spesso e abbiamo continuato a farlo per una dozzina d’anni. Sempre nel locale di Bernardini ho conosciuto Celentano. Ero parte del gruppo che con Rocky Roberts e Fred Bongusto faceva le serate a turno alla Bussola, ma con Adriano non ci siamo mai frequentati, non dava confidenza, mi avrà salutato due volte in vita sua».

Nella sua carriera professionale un posto importante ce l’hanno altre due donne della canzone italiana: Anna Oxa e Luisa Corna.

«Anna quando vincemmo nel 1989 era in un periodo di straordinaria forma. È venuta ad abitare vicino a me e ha tenuto a battesimo mio figlio Francis Faustino. Ci divertivamo a fare le imitazioni. Io di Totò e Alberto Sordi, lei di Ornella Vanoni e Massimo Troisi. Dopo la vittoria a Sanremo abbiamo partecipato insieme all’Eurovision Song Contest con la canzone “Avrei voluto”. Era nata una bella amicizia fra di noi. Con Luisa, anche lei bresciana, siamo diventati grandi amici dopo il successo del brano “Ora che ho bisogno di te” cantato in coppia a Sanremo e piazzatosi al quarto posto. L’ho voluta alla festa di compleanno».

Quali sono stati i suoi miti giovanili?

«Da bambino alla radio sentivo le canzoni popolari interpretate da Claudio Villa, Luciano Tajoli e Natalino Oddo. Poi a17 anni ho scoperto la musica di Ray Charles e due anni dopo mi sono innamorato dei Beatles. Il pioniere americano del soul blues e del vocal jazz l’ho visto per la prima volta 60 anni fa in Versilia. Ma all’epoca ero molto timido e lui, non vedente, era sempre circondato da tante persone e per me inavvicinabile. Diversi anni dopo, nel 1995, Gianni Minà gli dedicò una trasmissione e mi invitò, chiedendomi anche di cantare con lui. Io accettai con entusiasmo, ma al momento di entrare in scena per poco non svenni. Mai nella vita avrei pensato di poter cantare con lui e la sua orchestra. Alla fine me la cavai e ne sono ancora felice».

Singolare la scoperta dei Fab Four di Liverpool.

«Fu il mio amico Gerry Bruno dei Brutos, quello che si presentava in scena con tutti i denti anneriti e sembrava ne avesse solo uno, a regalarmi, di ritorno da Londra, un loro disco. Un segno del destino perché l’anno dopo l’esperienza alla Bussola, era il giugno del 1965, venni chiamato con il mio gruppo ad aprire il loro tour italiano (Milano, Genova e Roma) assieme a Peppino Di Capri e i New Dada. Di quella fantastica esperienza mi resta una foto che tengo come una reliquia. Paul, John, George e Ringo erano blindatissimi. Arrivavano, salivano sul palco, cantavano e se ne andavano».

Qual è il brano a cui è più affezionato?

«Quello che mi ha portato al successo: “A chi”. Avevo 23 anni e il singolo ha venduto nel mondo quattro milioni di copie. Con i proventi mi ci sono comprato una Jaguar e una villa in Brianza. Ancora oggi ringrazio Baudo, che mi chiamò a cantarla in tv a “Settevoci”, e Renzo Arbore che la trasmetteva di continuo nella sua trasmissione radiofonica “Bandiera Gialla”. Fu il disco più venduto dell’anno: più di “Penny Lane”, “29 settembre” e “Dio è morto”».

Partito dal nulla, è arrivato in alto mantenendosi.

«Mio padre Vitale era fabbro e in guerra aveva perso una gamba, amputata sotto il ginocchio. Ogni mattina si allacciava la protesi e saliva in bicicletta percorrendo 30 chilometri per raggiungere la bottega e rientrare la sera. La mia famiglia era poverissima: ero il terzo di sei figli e per farci trovare da mangiare mamma Caterina metteva in conto al panettiere e al fruttivendolo e poi a fine mese pagava quello che poteva. Finite le scuole elementari ho lavorato come garzone da un salumiere. Prendevo mille lire alla settimana. Per premio mamma mi regalò la prima chitarra, un modello economico. Ero bravino a cantare e imparai qualche accordo iniziando a suonarla. Vinsi pure il Microfonino d’Oro, un premio messo in palio dal parroco del paese».

Dalle feste di piazza al tempio della musica leggera.

«A 13 anni mi prese con la sua orchestra Tullio Romano dei Los Marcellos Ferial, quelli di “Cuando calienta el sol”. L’anno dopo passai con l’orchestra di Max Corradini. Prendevo tremila euro al mese. Le spedivo a mia mamma che aveva creduto nelle mie doti. Con quei soldi si è comprata il frigo e la tv».

Quali sono i giovani interpreti della musica del futuro?

«Dei nuovi artisti mi piacerebbe duettare con il mio conterraneo Blanco e con Irama che scrive bei testi e ha una voce giusta che calza a pennello con la mia voce gracchiante. Tra le donne stimo molto Elodie che reputo la Loredana Bertè degli anni Duemila. Sa cosa detesto? Chi inneggia all’odio e all’uso di sostanze stupefacenti. La mia unica droga è un bicchiere di buon vino prima di iniziare a cantare». 

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