Il Tirreno

L'evento

Il sopravvissuto di Capaci: la mafia fu l’operaia di un disegno più grande

di Luca Balestri
Il direttore del “Tirreno” Cristiano Marcacci, Angelo Corbo e l’assessora regionale Nardini
Il direttore del “Tirreno” Cristiano Marcacci, Angelo Corbo e l’assessora regionale Nardini

Angelo Corbo ha presentato il suo libro nel salone del Tirreno

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L’esercizio di memoria che fa Angelo Corbo, sopravvissuto alla strage di Capaci, quando era nella scorta del giudice Giovanni Falcone, è necessario per tenere la luce accesa su una delle pagine più oscure della storia d’Italia. E per diffondere la cultura della legalità. Contro la mafia, contro chi con la criminalità organizzata è colluso.

Intervistato ieri nel salone del Tirreno, dal direttore del giornale Cristiano Marcacci, Corbo ha presentato il suo libro “Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze”.

«Falcone era un uomo solo, odiato da tutti. Da molti politici, da molti imprenditori, dalla cittadinanza. Erano infastiditi perché stava scoperchiando tutto. Ma il suo unico sogno era riprendersi la libertà».

Dall’immagine del giudice, Corbo passa a descrivere la sua. Quella di giovane ventiseienne in divisa, che affianca uno degli uomini più in pericolo dell’intero paese. «Entro nella scorta nel 1990, nella sezione della squadra mobile di Palermo. Ma quando entro, non sono adeguato per il servizio di scorta, sono solo buttato là – dice -. Nessuno voleva far parte di quella scorta, sia perché era pericolosa, sia perché il rapporto con Falcone non era idilliaco».

Il giudice, che sognava la libertà ma era ben consapevole della sua condizione di “morto vivente”, «era una super persona professionalmente, ma noi della scorta per lui eravamo un peso. Per lui la scorta era la privazione della libertà», specifica il sopravvissuto. Poi aggiunge che per il magistrato, «i momenti più felici erano quando andava a Roma, senza scorta, se non nelle ore di lavoro. Quando hai sempre sei uomini intorno la libertà la perdi».

Corbo è ancora vivo solo perché quella mattina era sull’ultima auto della scorta del giudice. «I posti li avevano il caposcorta, che è l’agente più anziano, che si posiziona nell’auto dietro allo scortato – spiega l’autore –. Gli altri agenti di scorta non hanno un ordine preciso su dove andare, quindi nell’auto esplosa potevo esserci anch’io».

Il fatto che sia sopravvissuto, però, fa sì che l’ex poliziotto non passi giorno senza che il suo pensiero fisso sia il momento dell’attentato mortale. Nella sua mente l’esplosione è ancora nitida. «È una frazione di secondo, non te ne rendi neanche conto. Ti rendi conto solo della sensazione che hai di volare, e di diventare una pallina da ping pong dentro la macchina – ricorda -. Nel processo qualche perito ha scritto che la nostra macchina si è alzata a terra di cinque o sei metri, forse esagerando un po’, per ricadere violentemente sull’asfalto. L’asfalto, che si era frantumato, ricadeva su quanto rimaneva delle nostre macchine».

Un boato, un frastuono terribile, più vite che si sgretolano. E pensare che quel 23 maggio 1992 la scorta era preoccupata maggiormente per il giorno dopo, quando il giudice sarebbe dovuto andare a Favignana per vedere la mattanza dei tonni. «In media il sabato arrivavamo a casa alle 2 o alle 3 di notte, e andare a Favignana il giorno dopo significava essere alle 6 di mattina a prendere le armi, almeno. A Favignana ci sarebbero state tante persone, e noi avremmo avuto poche ore di sonno, oltre ad essere solo in sei», continua Corbo. Lo stress era quindi tutto sul giorno dopo. «Avrei preferito lavorare ventiquattr’ore domenica 24 maggio rispetto a quanto successo il giorno prima», chiosa.

Nonostante quella tragica giornata, e i traumi fisici ma soprattutto psicologici che gli sono rimasti addosso, Angelo Corbo non rinnega la sua scelta di vita. «Sono rimasto sconvolto dagli avvenimenti, ma non mi sono mai pentito. Non ho fatto questo lavoro perché non avevo altra scelta. Essere un poliziotto, anzi uno sbirro come mi considero io, significa stare al servizio delle persone», rivanga nel passato l’autore.

Ciò che gli ha fatto più male del suo ruolo è stato l’abbandono che lui, come gli altri sopravvissuti alla strage di Capaci, hanno subìto. Oltre al fatto che ancora oggi ci sono dei coni d’ombra su quella buia pagina di storia. «In questo caso parlo da vittima della storia. Abbiamo bisogno di giustizia, di sapere la verità. Io penso che la mafia sia stata solamente l’operaio di un disegno più grande. Chi ha ordinato la strage non era un siciliano, o comunque non abitava in Sicilia. Avremmo bisogno di sapere chi l’ha voluta», dichiara.

C’è ancora tanto da raccontare di quel 23 maggio. Ma in questa storia la protagonista è l’omertà. «L’omertà può esserci per paura, ma anche per convenienza. Qualcuno ha visto, ma non ha il coraggio di raccontare tutto», attacca Corbo. D’altronde, nel clima siciliano di oltre trent’anni fa lottare contro la mafia non era un’azione vista da molti di buon occhio. Anzi. E come racconta Corbo, se i sopravvissuti alla strage non fossero rimasti vivi, forse ci sarebbe stato un peso in meno per chi remava contro Falcone. «Quando siamo arrivati all’ospedale il 23 maggio non avevano neanche delle sedie per noi. E neanche una stanza, all’ospedale c’hanno tenuto nel corridoio», il trattamento subito dai sopravvissuti. E la politica non è stata più cauta della società. «Non c’è stata differenza tra destra, sinistra e centro. Se ne sono fregati tutti», tuona Corbo.

Presenti all’evento l’assessora regionale Alessandra Nardini, l’assessore comunale Rocco Garufo e la vicaria del questore di Livorno Lorena La Spina.


 

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