Il Tirreno

25 anni di un film cult

«È il mio “C’era una volta a Livorno”»: Virzì svela il suo Ovosodo più privato

di Claudio Marmugi
Una scena di “Ovosodo” uscito nei cinema 25 anni fa
Una scena di “Ovosodo” uscito nei cinema 25 anni fa

«Raccontavo una città che avevo lasciato con rabbia e con la quale mi sono riconciliato»

06 settembre 2022
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“C’era una volta a Livorno”. A poche ore dalla prima mondiale di “Siccità” (che viene presentato fuori concorso al Festival di Venezia) il nuovo film di Paolo Virzì, scritto con Paolo Giordano e Francesca Archibugi, interpretato tra gli altri da Monica Bellucci, Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Vinicio Marchioni e Sara Serraiocco, abbiamo incontrato il regista livornese per porgli alcune domande sul (suo) cinema, sui venticinque anni di “Ovosodo”.

È stato uno dei suoi primi grandissimi successi il cui anniversario cade proprio in questi giorni, uscì infatti il 12 settembre 1997 – e sui progetti futuri di un autore che, pur raccontando il mondo, ha sempre avuto ed ha ancora Livorno nel cuore.

Virzì, venticinque anni dopo, esiste ancora la Livorno di “Ovosodo”?

«Non lo so, ma forse Livorno non era nemmeno come si vede in “Ovosodo”. La Livorno di quel film è una Livorno romanzata e romanzesca, quasi elegiaca, vista da lontano, un’idea d’epoca della città proletaria. Quando ho scritto e girato il film pensavo ad inglesizzare Livorno, mostrare la città come una specie di Londra sul mare, c’erano anche espliciti riferimenti a “Trainspotting”, film di Danny Boyle uscito l’anno prima, ambientato nella periferia di Edimburgo, in Scozia, con le classi sociali, gli industriali, i subalterni, tutto per raccontare il dolore e l’orgoglio di essere nato dalla parte sbagliata della città, una specie di grande artificio letterario. L’idea era anche di raccontare Livorno ai non livornesi e di renderla un po’ specchio del mondo. Per scherzare, da studente di cinema, a due miei vecchi maestri come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi (due grandissimi sceneggiatori della commedia all’italiana, ndr) dicevo sempre: “Vedrete, un giorno farò anch’io il mio “C’era una volta in America”, tornerò a Livorno e farò “C’era una volta a Livorno”. Forse era un po’ quello».

Cos’è per lei la livornesità?

«Eh! Io mancavo da Livorno da una decina d’anni. Ero andato via a ventun’anni con il tumulto nel cuore, la rabbia, il sentimento d’incomprensione verso la città, il desiderio di fuggire, la voglia di sbattere la porta e non tornare mai più. Ma io, forse, non ero pienamente livornese prima: lo sono diventato andando via. La maschera del “livornese”, ad esempio, mi è servita tanto nella vita, specie nell’ambiente di lavoro del cinema romano. La maggior parte di chi lavorava nel cinema quando cercavo di entrarci io veniva da storie sociali diverse dalla mia, molti erano “figli di”, i registi del momento erano i Marco Risi, i Ricky Tognazzi, con quei cognomi lì, quelli che avevano pedigree familiari importanti, io non avevo nulla; così, per sentirmi fiero dell’assenza totale di vantaggi, la maschera del livornese è stata perfetta. Mi ha permesso di essere allegro e polemico allo stesso tempo, e di propormi con una fierezza che in realtà non possedevo».

Che ricordi ha della prima livornese di “Ovosodo”?

«Quella serata mi riconciliò molto con la città, lo dico sinceramente. Il film doveva uscire a ottobre, ma dopo il trionfo di Venezia l’uscita fu anticipata e “Ovosodo” fu lanciato nelle sale da Cecchi Gori subito. Il giorno dell’uscita, quasi tutti i cinema di Livorno proiettarono il film contemporaneamente. Mi ricordo che i portuali costruirono al volo un palco sulla piazza davanti al “4 Mori” per accogliere tutta la gente che arrivava per festeggiare, come se avessimo vinto un campionato di calcio. E siccome ero abituato a vedere Livorno come un luogo che non ti dà soddisfazione mai, ma ti canzona sempre e ti sminuisce (che è anche il suo bello, è una cosa che mi serve tantissimo ancora oggi) quella serata mi sorprese: con la folla a perdita d’occhio, Benigni che mi si buttò in braccio, le autorità, ma soprattutto il popolo, tanto popolo festante. Quella notte lì fu l’inizio di un cammino diverso. Mi dissi: “Ma allora forse questa è davvero casa mia”».

Pensa che un “Ovosodo 2” sarebbe possibile?

«“Ovosodo” è un film di genere, è una biografia dall’infanzia all’età adulta, romanzo di crescita, un film sul “coming of age” si dice, e non mi è più capitato di raccontare storie così, di adesione totale al romanzo alla “David Copperfield” di Dickens, forse “Caterina in città” è un po’ in quello stile, ma con un arco narrativo più breve. Ne ho già fatta una, dunque, direi di no. Farò altre cose a Livorno. Mi vedrete spesso in giro. Perché Livorno mi fa piangere e ridere ancora. Ed essendo un posto che mi fa piangere e ridere, la racconterò perennemente».

“Ovosodo” porta la firma, oltre che sua e di Francesco Bruni, di un altro grande sceneggiatore del cinema italiano...

«Sì, di Furio Scarpelli. Che per me è stato il più grande sceneggiatore di tutti i tempi. Scarpelli, in qualità di mio maestro, ha sempre letto tutti i film che ho scritto. In questo caso, aveva scarabocchiato molte note direttamente su quel copione, con la sua calligrafia deliziosa, erano note preziosissime, scritte per entusiasmo, per vero amore: aveva ampliato battute, dato qua e là pennellate, incrementato le voci off. Ero così grato di quello che ci aveva regalato che mi levai uno sfizio: far pagare il mio maestro da Cecchi Gori e fargli firmare con me e Francesco Bruni il film. Anche per sdebitarmi per tutto quello che lui mi aveva dato nella sua vita. Mi sento tuttora un suo figlioccio artistico, suo discepolo».

Sul film nuovo film, “Siccità” che andrà a presentare in anteprima mondiale alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia giovedì prossimo, Paolo Virzì non ci ha potuto dire ancora niente di approfondito, a causa di obblighi contrattuali. Ma in occasione di un incontro pubblico a Livorno, a Villa Maria, a metà agosto, accennò che l’idea del film era nata nel primo lockdown del 2020, nei terribili giorni in cui non si poteva uscire di casa «mentre tutti ci stavamo chiedendo se ci sarebbero stati ancora dei film e se saremmo ritornati mai alla vita normale». Per questo, lui e i suoi collaboratori, hanno pensato a un film molto affollato, pieno di personaggi, «un racconto corale – aveva detto il regista in quell’incontro livornese – per guardare al dopo, fatto di tante storie e di destini solitari che convergono». In un inverno di lockdown (quello tra il 2020 e il 2021), ha ricreato un’estate arida, con gli alberi spogli; tutto per raccontare le relazioni, gli esseri umani: «una via di mezzo tra lo scoramento e l’insopprimibile desiderio di speranza che ci anima», aveva sintetizzato Virzì.

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