Il Tirreno

Sport

L’intervista

Bruno Conti compie 70 anni: il baseball, quel torneo dei bar e il rimpianto più grande. «Quando abbiamo rischiato di annegare Bearzot»

di Luca Tronchetti

	Bruno Conti ed Enzo Bearzot
Bruno Conti ed Enzo Bearzot

La leggenda dell’Italia di Spagna ’82, spegne oggi 70 candeline: «Io e Graziani lo spingemmo in acqua per far festa, ma non sapeva nuotare»

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Con il suo dribbling ubriacante, il sorriso accattivante e lo sguardo perso dietro a una palla che rotola, “MaraZico” supera di slancio la soglia dei 70 e segna il gol più importante vincendo una malattia che lo aveva colpito due anni fa. Il caschetto (oggi un po’ imbiancato) più amato dagli italiani assieme a quello biondo di Raffaella Carrà ha segnato un’epoca: gli anni Ottanta, quelli del Mundial, del presidente Pertini, di un Paese uscito dagli anni di piombo che aveva voglia di riempire le piazze e tornare a vivere.

Lui, Bruno Conti, leggenda immortale del calcio, maglia numero 7 (al mondiale di Spagna indossava la 16), correndo su e giù sulla fascia destra (lui mancino)è salito sul tetto del mondo mandando in estasi i tifosi con il divino Pelè che lo definì “più brasiliano dei brasiliani” e il genio Maradona che voleva convincerlo a seguirlo nel Napoli. Ma “Brunetto” – 402 presenze e 47 reti, eterna anima giallorossa dove ha vinto uno scudetto (1982-83), cinque Coppe Italia, due campionati e una Coppa Primavera e collezionato 47 maglie azzurre condite da 5 gol e decine di assist – è stato il carabiniere della Roma. Fedele a quella maglia dove, eccezion fatta per due stagioni trascorse nel Genoa, ha vissuto mezzo secolo di vita sportiva. «Non poteva essere altrimenti. Mio padre Andrea, che si spaccava la schiena dalle 4 del mattino alle 7 di sera facendo il muratore per tirare avanti una famiglia di sette figli, era malato della Roma. In giardino piantava solo fiori gialli e rossi».

A un certo punto il calcio ha rischiato di perdere il suo talento.

«A Nettuno d’estate si giocava solo a baseball, uno sport importato dai marines sbarcati ad Anzio nel 1944 e che si era visto al cinema grazie al film di Alberto Sordi “Un americano a Roma”. Ero bravino e una sera d’estate il presidente Alberto De Carolis si presentò nella povera casetta di via Romana, dove dormivano in tre in un letto, con un alto dirigente del Santa Monica in California, formazione del college americano giunta per una tournée. Volevano portarmi negli States per giocare nei professionisti. Avevo 16 anni. Consulto tra mio padre e mamma Secondina e poi la decisione di soprassedere. Con un unico rammarico: ho smesso in quinta elementare per aiutare i miei lavorando come commesso in un negozio di casalinghi della zia. Ecco ai ragazzi della scuola calcio lo dico sempre: cullate i vostri sogni, ma abbiate sempre un piano B che preveda una formazione culturale».

L’oratorio come sua prima palestra di vita?

«Chi se lo dimentica il campetto del Sacro Cuore? Lì c’erano le porte di legno. Il curato è stato il mio primo tifoso. Si metteva ad arbitrare e se commettevi falli o sacramentavi durante le partite, con le sue manone impartiva sonori scappellotti che erano l’equivalente del cartellino giallo. Per giocare, rigorosamente dopo la messa, dovevi indossare la tonaca di chierichetto».

Il Mago con lei ci ha capito poco...

«Non solo Helenio Herrera. Anche gli osservatori di Bologna, Sambenedettese e inizialmente della Roma. Il refrain era sempre lo stesso: bravo tecnicamente, ma troppo fragile fisicamente con il mio metro e 65. Per cercare di “allungarmi”, l’allenatore del Nettuno, mi teneva sospeso sulla traversa della porta. Ma non crescevo di un millimetro. Devo tutto a Antonio Trebiciani, il tecnico delle giovanili della Roma, che mi vede giocare a 17 anni in un torneo dei bar ad Anzio dove c’erano calciatori di C. Mi portò nella Primavera e passai dai dilettanti al debutto in serie A contro il Torino. Da ragazzo il mio idolo era Rivera e vedermelo davanti mi diede una gioia incredibile».

Liedholm, Simoni e Bearzot: padri e maestri di calcio e di vita...

«Senza di loro non sarei mai diventato Bruno Conti. Il Barone parlava sempre di spirito di gruppo e non voleva litigi. Al minimo accenno di scontro in allenamento ci ordinava di stringerci la mano. Scaramantico come pochi: guai a mettere fiori nello spogliatoio. Costringeva Sergio, l’autista del pullman, a percorrere lo stesso tragitto da Trigoria all’Olimpico sedendosi sempre allo stesso posto. Una volta trovammo un traffico incredibile con il rischio di arrivare tardi allo stadio. Il conducente chiese a Liddas se poteva cambiare strada e lui flemmatico “Tu prosegui, chiameremo l’arbitro per ritardare la partita”. In nome della cabala tollerava anche il rito di Cerezo che portava il cuscino sul bus e dormiva steso a terra sul corridoio. Simoni è stata la mia fortuna. Un maestro di campo e di vita. Mi volle al Genoa in B e ogni martedì mattina veniva in macchina a prendermi alla caserma Cecchignola dove prestavo servizio militare con Pruzzo e mi riportava in Liguria. Quando sono arrivano in rossoblù i tifosi storcevano la bocca perché ero piccolino. Lui scommise su un ragazzino dandomi massima fiducia: con il Grifone tornammo in A e vinsi il “Guerin d’Oro” come miglior giocatore del campionato cadetto. Bearzot, invece, è stato il mio papà calcistico. Predicava il senso della famiglia, ci invitava ad essere uomini veri prima che calciatori. E pensare che, dopo la vittoria con il Brasile, per poco non lo uccido. Presi dall’euforia io e Graziani lo vediamo a bordo piscina e lo spingiamo in acqua. Il Vecio non sapeva nuotare e se non ce ne accorgevamo in tempo finiva per annegare. Il primo giorno da campione del Mondo lo passai con lui a mangiare mezzo chilo di noccioline. Ci chiamavano le scimmiette».

Bruno Conti e la Toscana.

«I toscani sono schietti e diretti: pane al pane e vino al vino. In azzurro c’erano Paolino Rossi che mi fece l’elogio più bello in occasione del secondo gol alla Polonia quando, raccontando del mio cross, disse che quella palla bastava solo spingerla in rete e Marco Tardelli, avversario con cui battibeccavo spesso in campo nelle sfide con la Juventus, ma compagno di notti insonni alla vigilia delle sfide mondiali. Con Bearzot facevamo l’alba. Ci avevano ribattezzato i Coyotes».

Rimpianti nella sua vita sportiva?

«Sarebbe scontato dire la finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio persa ai rigori con il Liverpool davanti alla nostra gente in un Olimpico imbandierato, anche per un mio errore dal dischetto. Invece il momento più doloroso è stata la perdita del mio capitano: Agostino Di Bartolomei. Una ferita che non si rimarginerà mai. Ago alla Roma è stato un leader silenzioso, il corrispettivo di Scirea in azzurro. Prima che accadesse l’irreparabile avevo organizzato una partita al palazzetto dello Sport per un ex compagno di squadra sfortunato. Vennero tutti i ragazzi dello scudetto e Ago era lì. Rideva e scherzava. Non mi sono accorto del suo disagio. Lui si è sempre fatto in quattro per tutti noi e noi non abbiamo capito il suo dramma interiore».

Come festeggerà i suoi 70 anni?

«In famiglia con mia moglie Laura, il Ct della famiglia, i figli Daniele (icona del Cagliari) e Andrea e i cinque nipoti: Brunetto, Manuel, Melody, Aurora e Anastasia. Due anni fa mi hanno diagnosticato un tumore al polmone, ricordo delle tante sigarette fumate per scaricare la tensione. Devo ringraziare il mio medico e il primario del Sant’Andrea per le cure che hanno funzionato. Il mio caschetto? Andavo in giro col cappello per le chemio, ma per fortuna ora i capelli sono ricresciuti. Adesso sto bene. Gli esami sono a posto e sono un uomo felice perché il regalo più bello continuo a riceverlo tutti i giorni dalla gente che mi incontra per strada e mi saluta con lo stesso affetto di quando giocavo. Mi vogliono bene pure i laziali»

C’è un suo erede nel calcio di oggi e come vede la Roma di Ranieri?

«Il gioco è cambiato e stento a vedere calciatori capaci di saltare l’uomo e arrivare sul fondo per i cross. Ranieri è l’ultimo allenatore della mia generazione. Sta facendo cose incredibili. Quando ero dirigente lo avevo portato nel club per il dopo Spalletti e per poco non vincevamo lo scudetto. Seguendo il suo esempio torneremo a vincere». 
 

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