Luciano Spalletti al raduno della destra: il ct azzurro sarà all'evento di Fratelli d'Italia
Il tecnico accetta l’invito ad Atreju ed è subito polemica. La panchina della Nazionale considerata a torto “apolitica”: ma la storia racconta un'altra cosa
In ogni italiano arde un commissario tecnico, ma grama è la vita del padrone di Coverciano. Criticato al bar e sull’autobus per le sue scelte tattiche, sopportato a stento dai colleghi che ne temono le influenze jettatorie sulle preziose caviglie dei giocatori, tollerato dai club che sperano, sotto sotto, che il proprio campione non venga convocato.
Ma non basta: agli occhi dei tifosi il commissario tecnico dev’essere anche fulgido esempio di correttezza e terzietà, persino nella vita sociale e politica. Non deve mai esprimere orientamenti e concetti di una qualche profondità, perché come il presidente della Repubblica è patrimonio (e inevitabile bersaglio) di tutti gli italiani, di destra e di sinistra e deve restare nell’ovatta del politicamente corretto.
Ma adesso Luciano Spalletti, che è uomo di grandi valori e soprattutto non sarà mai una persona omologata al sistema, ha assestato una robusta spallata (nomen omen) a queste regole non scritte che vorrebbero l’inquilino della panchina azzurra come un uomo asettico, senza slanci e passioni al di fuori del campo. Luciano invece è uomo di pancia, e quando ha deciso di accettare l’invito di Giorgia Meloni e del suo partito alla festa di Atreju (con lui ci saranno altri sportivi di livello altissimo come Gregorio Paltrinieri e Ambra Sabatini) sapeva perfettamente di mettere la mano in un nido di vespe. Ma come, tuona l’arena social, tu quoque Luciano, comunista per esplicita ammissione, fieramente nato in una terra, Certaldo, dove fino a non molti anni fa il Pci raccoglieva più voti che nella steppa siberiana ai tempi dell’Urss, ti consegni mani e piedi al nemico? Nessun nemico: il cittì è uomo di dialogo, ama portare messaggi, offrire la propria esperienza e il proprio sereno equilibrio tutto toscano laddove richiesto. Perché nessun uomo è un’isola, anche se fa l’allenatore della squadra che nel cuor ci sta. E poi, mai il commissario tecnico è stato al di sopra delle parti, delle convinzioni, dei momenti storici.
Vittorio Pozzo era un alpino della Grande Guerra che si trovò a vincere due campionati Mondiali ai tempi in cui bisognava salutare a braccio teso qualcuno che tifava tronfio dalla tribuna, ma chissà se è mai stato convintamente fascista.
Enzo Bearzot, padre della Patria pallonara, tirava notte con l’amico prete a parlar di politica e di fede, gradì lo scopone con Pertini e secondo i suoi biografi era uomo di centro.
Cesare Prandelli, forse per le frequentazioni fiorentine, veniva accostato al renzismo e quelli della destra non gliele mandarono a dire quando il nostro Mondiale 2014 finì in disastro. Arrigo Sacchi deve molto della sua carriera a Silvio Berlusconi, ma nonostante l’amicizia fraterna con Adriano Galliani non è mai caduto nella trappola dell’endorsement per Forza Italia. Anche Il Trap, brianzolo fino al midollo, dalla vulgata viene collocato al centro mentre Roberto Mancini, che adesso è demone dopo la scelta araba ma che era angelo dopo la vittoria degli Europei, non ha mai nascosto di essere figlio di un comunista ma di avere idee più moderate. Marcello Lippi, con gli amici di Viareggio, si è sempre professato socialista. Insomma, dietro i ct ci sono un’anima, un cuore che batte, delle idee e non si può appiattirle nel nome del “corretto”.
Ecco perché Spalletti, con la sua scelta, ha aperto una porta importante in un calcio troppo ipocrita, che lascia sempre fuori dai cancelli degli stadi la società, i problemi, l’impegno, la politica.
Luciano, figlio di comunisti e “rosso” confesso, l’uomo che lavora sul trattore sulle colline di Avane lontano dai lustrini e dalle paillettes del mainstream calcistico, non ha paura delle idee diverse dalle sue. E questo vale più di un pareggio contro l’Ucraina: questa è roba da uomini.
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